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Andrea Marchesini

Andrea Marchesini – L’arte è viaggio

Un’arte che nasce libera e spazia nel pensiero, muovendosi tra elaborati concetti e sensazioni impalpabili. Andrea Marchesini ha iniziato il suo percorso su un grande tavolo ricoperto di carta e lo prosegue “da qualche parte, da nessuna parte”.

Qual è la prima parola che ti viene in mente pensando alle tue opere d’arte?

Me ne vengono in mente molte, ma alla fine quella che le condensa tutte è “viaggio”, intenso come percorso interiore. Un viaggio dove non conta la meta, non conta arrivare. Quello che conta sono le tappe. Un po’ come una carovana nel deserto, che beneficia delle oasi per poter proseguire all’infinito. Tutto questo è in funzione dello sviluppo di un pensiero creativo, che cerca risposte alle domande che da sempre ci poniamo.

Ecco che cos’è per me la pittura: la conseguenza di un pensiero, un modo di vivere, specchio dell’artista stesso.

Da cosa parte la tua azione creativa?

Il mio è un costante flusso di “coscienza” alla Joyce composto da infiniti flashback che fanno apparire immagini a cui cerco di dare un senso. I miei quadri non sono dipinti tradizionali, sono creazioni: c’è molta parte di colore, molta parte di tessile, ma anche materiali quali gesso o stucco. L’opera finisce quando trovo un equilibrio tra la mia interiorità e l’armonia di forma, colore e peso dell’opera stessa. Quando i lavori sono in fase terminale, ma manca ancora un “quid”, li dispongo a semicerchio davanti al divano del mio studio, mi siedo e li osservo nel più completo silenzio. Sostanzialmente familiarizzo con le mie stesse opere, finché non capisco come completarle per raggiungere l’equilibrio di cui parlavo.

Puoi farci un esempio di come nasce un dipinto o un progetto artistico?

Prendiamo la serie di opere “Frankenstein 2.0”. Quei dipinti sono nati da una mia riflessione: l’umanità, per poter evolvere e passare quindi a uno stadio successivo, deve prima destrutturarsi – come in un puzzle – e poi ricomporre quelle stesse tessere in ordine diverso. Il mostro di Mary Shelley in realtà non è altro che un passo positivo nell’evoluzione dell’umanità, un gradino più in alto. Ed ecco che per realizzare queste opere ho preso vecchi lavori lasciati incompiuti, ne ho ritagliato dei pezzi a cui ho dato nuova forma e li ho ricomposti applicandoli su nuove tele, per ottenere un unicum. Lo stesso avviene per i colori. Io uso olio, smalti e acrilici. Olio e smalto sono basi sintetiche, mentre l’acrilico è base acqua: sono quindi sostanze che si respingono. Anche in questo caso cerco l’armonizzazione tra opposti.

Più che dipingere, io creo. Per indole sono contro il pensiero unico a favore dell’individualità e della libertà dell’azione creativa. E questo si evince anche dall’ambiente in cui lavoro. Il mio studio si trova isolato tra campi di grano e vigneti, nella più assoluta tranquillità. All’interno invece è una sorta di laboratorio alchemico, un enorme caos in cui – per muoversi – bisogna aprirsi una via tra libri, quadri, oggetti, colori, burattini, maschere… Questo è il mio rifugio, la mia sicurezza. Da spazio creativo è diventato sostanzialmente un luogo, che è una cosa ben diversa. È il mio “Somewhere-Nowhere”, che peraltro è il nome del progetto a cui sto lavorando in questo momento.

Di che cosa si tratta?

“Somewhere-Nowhere” è il titolo di una mostra che sto preparando per la galleria MA-EC di Milano e che aprirà al pubblico nel mese di maggio. Nelle opere che sto realizzando mi ispiro alla mia Isola che non c’è, che è “da qualche parte” ma anche “da nessuna parte”.

Puoi raccontarci brevemente la tua storia artistica?

Io sono figlio d’arte e sono praticamente cresciuto nell’atelier di mia madre. Mi sono formato, più che nelle accademie, nel vivo di uno studio artistico. A questo proposito c’è un ricordo che amo raccontare. Quando io e mia sorella avevamo 4 o 5 anni, mia madre ci metteva a disposizione un lungo tavolo coperto interamente di carta, ci buttava sopra pennarelli e matite e ci diceva: «Adesso divertitevi». Così io  passavo le giornate a disegnare e colorarne ogni centimetro. È qualcosa che ha influito sulla mia evoluzione, tanto che ora prediligo lavorare sul grande. Quella libertà creativa, quello spazio infinito da riempire… sono ancora dentro di me.

Scopri le opere di Andrea Marchesini!

Mauro Sini fotografia

Mauro Sini – Fotografare per delimitare il vuoto

Appassionato di architettura, Mauro Sini ricerca anche nella fotografia linee essenziali, forme nette e precise. È uno studio sullo spazio, da esplorare assecondando il proprio ritmo interiore.

Mauro, come sei approdato alla fotografia?

Ci sono arrivato relativamente tardi, a 34 anni. In precedenza, essendo molto attratto dall’architettura, avevo iniziato un percorso di studi universitario che ho poi abbandonato. Quello per la fotografia è un amore sbocciato da bambino, quando ho avuto la fortuna di ritrovarmi tra le mani una vecchissima macchina fotografica dei primi del Novecento, che mi ha aperto un mondo. Poi quell’amore è stato lasciato e ripreso fino a quando, all’età di 34 anni, ho deciso che da grande volevo fare il fotografo. In questo passaggio sono stato aiutato dai miei due maestri; uno è Flavio Renzetti, scultore e pittore, l’altro è Massimo Costoli, fotografo. Massimo, in particolare, mi ha aperto la mente e ha cambiato il mio modo di pensare e vedere fotograficamente. Insomma, grazie a lui ho scoperto chi è il Mauro Sini fotografo. Da allora ho iniziato una carriera come fotografo di abbigliamento e di interni, e parallelamente porto avanti la mia ricerca artistica.

L’architettura è rimasta nella tua vita, visto che i tuoi soggetti sono spesso edifici.

Sì, la fotografia di architettura è per me quasi una necessità, perché ricerco linee, pulizia. Spesso escludo volontariamente la figura umana, se non ha un senso nel contesto che sto fotografando. Il mio è un amore per lo studio dello spazio, che del resto è la stessa cosa che mi ha sempre affascinato nell’architettura. Quello che faccio nelle mie fotografie è tentare di delimitare il vuoto, ritagliare spazi all’interno di un vuoto attraverso il mio personalissimo punto di vista.

Poi ci possono essere progetti particolari come Mitoraj, che ho realizzato a Pompei, dove c’è la figura umana ma nella forma sublimata delle statue.

In ogni caso la mia creatività si esprime così, nel togliere più che inserire qualcosa nel frame del fotogramma. Anche nei paesaggi, in effetti, ricerco linee ed essenzialità.

Usi anche il colore o preferisci il bianco e nero?

Uso il colore solo quando il bianco e nero non valorizza l’immagine. E se nel bianco e nero sfrutto i contrasti, i colori sono sempre piuttosto scuri perché tendo a spegnerli. Insomma, nelle mie fotografie il colore c’è raramente, e quando c’è è comunque denso, mai brillante.

Del resto le fotografie che scatto per lavoro sono sempre a colori, e spesso a tinte molto vivide. In un certo senso il bianco e nero è la mia nicchia, il mio rifugio, dove tutto funziona come voglio e che riesco a leggere al mio ritmo.

Qual è il tuo metodo? Procedi seguendo un piano o ti lasci guidare dall’ispirazione?

A parte alcuni progetti specifici come Mitoraj, mi lascio guidare da quello che vedo. A volte vado a cercare dei luoghi che mi incuriosiscono. Fotografo quello che vedo, e avendo sempre viaggiato per lavoro mi ritrovo spesso in posti che offrono ispirazione e in cui magari ritorno per scattare con calma. Adesso per esempio sto lavorando a fotografie di archeologia industriale realizzate in un rudere dell’Argentario, dove ho intenzione di tornare per fotografare gli stessi luoghi in diverse ore della giornata. Questo è un progetto piuttosto strutturato, ma spesso i miei scatti sono casuali: passeggio e vengo colpito dalla proiezione di un’ombra, da un riflesso o dalla luce che attraversa una finestra.

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