Interferenze, perdite di segnale, improvvisi cambi di colore, deformazione dell’immagine o del suono… Sono alcuni dei piccoli incidenti che possono capitare con qualsiasi sistema elettronico, i cosiddetti glitch. Ed ecco che qualcuno ha pensato di farne materia per l’arte. Perché le macchine, per quanto possano approssimarsi alla perfezione, sono emanazioni dell’uomo e dunque fallibili.
Glitch è un termine tecnico che descrive un malfunzionamento imprevisto di un dispositivo, qualcosa che salta agli occhi in modo più o meno fugace. Tutti abbiamo ben in mente che cosa accade, per esempio, se c’è una momentanea perdita di segnale durante la riproduzione di un film.
La glitch art, così come la glitch music, consiste nel trasformare questi eventi del tutto casuali e imprevedibili in qualcosa di esteticamente e intellettualmente interessante. Sì, perché l’evoluzione tecnologica, a ben vedere, è un’estenuante tensione verso la riduzione dell’errore. Alcune macchine sono nate con il proposito di sostituire l’uomo nel lavoro allo scopo di aumentare la produttività e ridurre le possibilità di errore (il cosiddetto errore umano). Altre macchine, come per esempio la televisione o il telefono, sono al servizio dell’uomo, e in questo caso si combatte l’errore in nome di una funzionalità senza intoppi.
Eppure l’errore, il malfunzionamento, l’imprevisto, capitano e ci ricordano la nostra intrinseca imperfezione, strappandoci all’illusione dell’onnipotenza. Errare è umano, appunto.
Esempi di glitch art si riscontrano in buona parte del Novecento, ma è sul finire del secolo che si inizia a parlarne con maggiore frequenza, anche di pari passo con lo sviluppo delle tecnologie digitali e quindi della digital art.
Il processo creativo della glitch art consiste nel catturare un glitch che si verifica spontaneamente, oppure (più spesso) nel provocarlo per ottenere un determinato effetto. Ne risultano immagini statiche o in movimento deformate. E le deformazioni nell’arte hanno sempre un significato. Sono deformazioni le linee prospettiche “scoperte” nel Rinascimento che, paradossalmente, servono a darci un’illusione di realismo. Sono deformazioni le scomposizioni cubiste o futuriste, solo per citare alcuni precedenti. De-formare significa richiamare l’attenzione sulla forma e quindi anche sulla percezione, costringe ad andare oltre l’ovvio e accettare usa sfida che destabilizza.
È quello che fa il nostro Manuele Chan nei suoi “Tremori”, dove i contorni sono sfaldati, i colori virati in un’estetica dal sapore molto contemporaneo.
Come sarebbe noiosa la vita, senza errori.