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Daniele Chiocchio – L’armonia dell’insieme nell’ hôtellerie

Eventi, mostre, interior design: l’architetto Daniele Chiocchio orchestra i rapporti tra architettura, arte e spazi pubblici con sicurezza e maestria.

Architetto, ci racconti il suo lavoro.

Nel 1999 io e il mio socio Valerio Gini, architetto anche lui, abbiamo fondato Integra Studio, diventato in seguito Integra design e basato a Roma. La nostra attività corre su due binari paralleli. Il primo è quello dei grandi eventi. Ne abbiamo realizzati tantissimi e di diverse tipologie, in Italia e nel mondo: eventi nel campo dell’automotive e dello sport, eventi corporate per grandi aziende, eventi legati all’arte, tra cui grandi mostre.

Il secondo binario è quello dell’hôtellerie, che comprende tutto quello che riguarda il settore hospitality e F&B, quindi non solo hotel ma anche spa e wellness, ristoranti e cocktail bar.

Dal 2012 abbiamo realizzato molti interni per hotel, ma non solo: in realtà ci occupiamo di tutto, a partire dal concept e dalla progettazione preliminare per arrivare alla progettazione esecutiva e direzione artistica, fino all’interior design in ogni suo dettaglio.

Quindi il suo lavoro è profondamente legato all’arte…

Sì, certamente. Si può dire che siamo nati così, tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000: abbiamo iniziato infatti con l’exhibit design e con gli eventi, con mostre di grande richiamo, come quella sugli Espressionisti al Vittoriano a Roma, o con un taglio diverso come quelle su  Moto Guzzi, sui Beatles, su Fellini, su Audrey Hepburn all’Ara Pacis. C’è da dire, inoltre, che nel nostro percorso abbiamo allargato e approfondito le nostre competenze collaborando in team con professionisti che si occupano di  light design, proiezioni, tecnologia al servizio di grandi eventi e per installazioni, anche installazioni artistiche, tanto che abbiamo lavorato a video mapping quando ancora erano poco conosciuti, in luoghi come Palazzo Vecchio, a Firenze, o Montecarlo per Ferrari. Diciamo quindi che l’arte, intesa nel suo senso più ampio, entra spesso in gioco nel nostro lavoro, in modo trasversale.

In questo senso, può raccontarci l’esperienza di U-Visionary Venezia?

Mi piace il modo di lavorare di Cinquerosso Arte, e mi piace anche la possibilità di conoscere altri artisti,

L’inserimento di opere d’arte, o comunque di immagini artistiche, all’interno di strutture alberghiere è sempre una questione delicata.

Nel caso di U-Visionary Venezia avevamo un tema forte: siamo partiti dal ruolo della città come porta verso l’Oriente, con la sua storia di viaggi e scambi. Ci siamo ispirati a questo per tutta una serie di elementi dell’interior design: arredi, tessuti, dettagli, citazioni… Avevamo bisogno di qualcosa di esotico, nel senso più ampio del termine: qualcosa che avesse delle caratteristiche in qualche modo evocative ma che fosse acquistabile in grandi numeri. In un albergo, che mediamente ha 30, 40 camere, nella maggior parte dei casi non si possono acquistare pezzi singoli a cifre importanti. Per questo abbiamo trovato molto interessante la proposta di Cinquerosso Arte, con le sue riproduzioni di altissima qualità.

Abbiamo scelto tre artisti. Uno è Giulio Rigoni, con le sue immagini oniriche, ricche di elementi esotici. Nelle sue illustrazioni ho trovato collegamenti con Venezia, sia nelle immagini nel loro insieme sia nei tanti elementi iconografici. Poi c’è Icaro, con i suoi Botales: fotografie di batacchi che rappresentano figure metà umane e metà animali, e richiamano l’atmosfera misteriosa e affascinante di questa città. E poi c’è Luca Brandi, e nel suo caso abbiamo scelto opere con disegni geometrici e palette che si sposano perfettamente con il design generale, ma che soprattutto hanno un elemento interessante: sono molto “confortevoli”, evocano una sensazione di calma che rimanda anche alla cultura asiatica. Penso per esempio ai  giardini zen con le loro righe tracciate sulla sabbia, mentre qui sono tracciate nel colore.

Poco fa accennava al fatto che il rapporto tra arte e hôtellerie è piuttosto delicato. A che cosa si riferiva?

Sì, è delicato perché bisogna cercare di caratterizzare gli ambienti ma allo stesso tempo trovare il giusto equilibrio con gli altri elementi di arredo. Le opere d’arte devono essere interessanti e ben sposarsi con il contesto del design, senza appesantirlo. Un albergo non è uno spazio espositivo, non è un museo. L’opera d’arte non deve essere protagonista ma inserirsi in maniera organica e armoniosa. Quindi c’è una questione di rapporto e proporzione. Cinquerosso Arte, con la sua galleria così ampia, ci ha permesso di individuare artisti e opere in sintonia con il concept, che si inserissero e andassero a completare perfettamente il disegno generale.

Leggi l’intervista a Francesca De Pieri!

naturo fotografia alberi

Francesca De Pieri – La mia Arte è uno studio delle emozioni

Fotografa con una formazione pittorica, Francesca traduce nelle sue opere un rapporto di amore e attenzione nei confronti della natura. Ne derivano immagini poetiche e di potente intensità.

Sono nata e vivo a Mestre e la mia formazione è stata canonica, nel senso che ho frequentato l’Istituto d’arte e poi l’Accademia di Belle Arti, diplomandomi in pittura. In seguito ho studiato alla Facoltà di Design e Arti di Venezia, dove mi sono specializzata in fotografia.

Questo percorso fa sì che il mio approccio alla fotografia sia molto pittorico. Dopo aver scattato una foto la rielaboro finché non assume quasi l’aspetto di un dipinto, spesso di un acquerello. Quindi parto dalla fotografia per arrivare a qualcosa di più grafico, quasi materico.

Come è iniziata questa ricerca?

Tempo fa lavoravo su quelle che avevo chiamato Memory Box. Concepivo le mie immagini come scatole di ricordi, fotografando degli ambienti che ormai non esistono più. Quel progetto aveva avuto un buon successo: avevo un contratto con il Sole 24 Ore e la Fondazione Alinari di Firenze, collaboravo con gallerie sia a Milano sia a Venezia. Poi è arrivato il Covid e per me ha segnato un cambio di passo.

Ho cominciato a guardarmi dentro e, dopo quasi vent’anni, ho deciso di dare una svolta al mio percorso, di resettare tutto e ripartire. In quel periodo non era consentito uscire dal territorio comunale, quindi facevo delle passeggiate intorno a casa e vedevo cose che prima avevo ignorato, come appunto le aree verdi urbane. Ho iniziato quindi a osservare e isolare questi elementi, e in particolare gli alberi, e li ho resi protagonisti delle mie opere collocandoli in una dimensione quasi fantastica.

Così sono nate le foto blu, che chiamo “notturni”, e che rappresentano gli alberi mentre dormono. Si è scoperto che le fronde degli alberi si abbassano e si alzano di un metro nell’arco di 12 ore, come se inspirassero durante il giorno ed espirassero durante la notte.

Riprendere con una macchina fotografica questo movimento è impossibile, perché richiederebbe ore di esposizione, quindi ho cercato e cerco di rappresentarlo in modo creativo. Passata l’emergenza Covid ho potuto andare a cercare altri soggetti, e soprattutto ho continuato ad approfondire la conoscenza del regno vegetale.

Quindi il tuo è un approccio quasi scientifico?

In un certo senso sì, perché studio. Per esempio, sono rimasta molto colpita da un esperimento condotto da Cleve Backster, l’inventore della macchina della verità. Aveva messo due piante in una stanza, e aveva fatto entrare a turno 5 persone. L’ultima di queste persone ha distrutto una delle due piante. Dopo una settimana, sono state fatte rientrare le stesse 5 persone, e la pianta che aveva assistito ai maltrattamenti dell’altra ha reagito alla vista della quinta persona.

Gli elettrodi che le erano stati applicati hanno rilevato frequenze insolite, segno che la pianta stava provando qualcosa di simile a un’emozione, uno stato di terrore. È quella che viene definita “percezione primaria”. Ecco, nella mia ricerca artistica lavoro intorno a questa idea che le piante possano provare emozioni quali la felicità, la gioia, la tristezza e la paura.

Da qui è nata una serie che ho intitolato appunto “Percezione primaria”. E lo studio continua, perché sto approfondendo per esempio le reazioni delle piante alla musica. Mi interessa il rapporto tra mondo vegetale ed emozioni. Del resto pensiamo a come ci sentiamo meglio quando entriamo in connessione con la natura, al benessere che proviamo passeggiando in un bosco, oppure quando curiamo una pianta da appartamento: nei gesti che facciamo c’è qualcosa che ci fa bene, come una forma di meditazione. Le piante percepiscono noi e noi percepiamo loro. C’è uno scambio di energie, perché in quanto esseri umani siamo noi stessi parte della natura.

Come si inserisce il tuo percorso in Cinquerosso Arte?

Mi piace il modo di lavorare di Cinquerosso Arte, e mi piace anche la possibilità di conoscere altri artisti, alcuni dei quali sono davvero giovanissimi. La trovo un’ottima occasione per confrontarsi e scambiarsi stimoli. Quindi posso dire di essere molto contenta di questa collaborazione.

Leggi l’intervista a Mauro Santinato!

mauro santinato team work hospitality

Mauro Santinato – Parliamo di hötellerie con uno dei massimi esperti italiani  

Founder e Ceo di Teamwork Hospitality, Mauro Santinato è tra i massimi esperti del settore alberghiero in Italia. Consulenze di grande rilevanza, eventi, pubblicazioni, attività di ricerca e formazione. Viaggi e incontri con le più importanti personalità dell’hötellerie a livello mondiale, ne fanno un interlocutore di primo piano in un’intervista densa di contenuti.

Signor Santinato, ci racconti la sua storia.

Tutto è iniziato in giovane età, come cameriere stagionale a Rimini. Un lavoro estivo che ha segnato la mia vita, perché dopo il liceo mi sono trasferito da Ferrara a Rimini, che è diventata la mia città, per frequentare la Scuola di studi turistici. Ho poi avuto la possibilità di seguire un corso di specializzazione in marketing alberghiero, e sono entrato subito a bottega, come si usava dire una volta.

In una società di consulenza con cui ho collaborato per molti anni. In pratica ho fatto solo due lavori: uno che considero più serio, che è quello del cameriere, e l’altro – quello del consulente – che considero meno serio perché per me è un piacere.

Era il primo marzo del 1985 quando sono entrato per la prima volta in quella società, che era l’unica in Italia a svolgere un servizio di consulenza e marketing per le imprese alberghiere.

In questo cammino ho avuto modo di fare tante esperienze, incontrando centinaia di albergatori e personaggi del mondo dell’hötellerie. È diventato il mio lavoro, ma più andavo avanti e meno lo chiamavo lavoro, nel senso che ho fatto quello che mi è sempre piaciuto.

Nel 1997 ho avuto la possibilità di mettermi in proprio, e così è nata Teamwork, che oggi è una realtà conosciuta a livello nazionale e internazionale.

Di che cosa vi occupate?

Svolgiamo attività di consulenza per società del settore, alberghi e gruppi di alberghi. Negli ultimi dieci anni ci siamo specializzati anche nell’organizzazione di eventi, e alcuni di questi sono diventati appuntamenti di risonanza mondiale.

Hospitality Day, per esempio, è il più importante evento formativo in Italia: con oltre 5000 albergatori e più di 200 speech e seminari in cui affrontiamo tutte le tematiche operative dell’albergo. Un altro evento molto prestigioso è Luxury Hospitality Conference, che organizziamo a Milano ed è arrivato alla sesta edizione. In questo caso il tema è quello degli alberghi di lusso in Italia, e invitiamo relatori di livello internazionale come per esempio i Ceo di importantissime catene di lusso.

Inoltre organizziamo un altro importante evento che si chiama ITHIC – Italian Hospitality Investment Conference, con esperti di real estate e finanza che vengono a Roma per parlare di investimenti in uno dei paesi chiave del turismo.

Dunque molti esperti del settore vengono nel nostro Paese per opera sua. Lei a sua volta viaggia per il mondo?

Certo, moltissimo. Per tenermi aggiornato viaggio e visito centinaia di alberghi, tra cui i più iconici a livello mondiale, come il Raffles di Singapore, il Mandarin Oriental di Hong Kong, il Ritz di Parigi, il Savoy di Londra. E poi tutti gli alberghi più innovativi o gli alberghi di catene.

Lo dico sempre anche agli albergatori: il modo migliore per aggiornarsi è viaggiare, viaggiare con la mente aperta. Un’altra attività che mi permette di restare al passo con i tempi è frequentare le fiere, che offrono sempre stimoli e ispirazioni.

E poi ho incontrato tanti personaggi che hanno fatto la storia dell’hötellerie, come Ian Schrager, l’ideatore dei boutique hotel, o i Ceo di importanti catene come Sébastien Bazin di Accor, Maud Bailly di Sofitel e tanti altri.

Tantissime esperienze stimolanti, quindi…

Sì, tantissime esperienze che mi hanno permesso di essere quello che sono, e grazie alle quali ritengo di aver contribuito a diffondere un certa cultura manageriale nel nostro campo. Sono stato tra i primi in Italia ad aver portato innovazione nel settore della distribuzione online, e ad aver affrontato tematiche come il revenue management.

Oltre a Teamwork ho infatti fondato un’altra società che si occupa di consulenza in questo campo – Hotel Performance – con la quale organizzo un evento, il Global Revenue Forum, che si tiene in contemporanea a Milano, Stoccolma e Londra.

Inoltre faccio anche tanta attività di ricerca e formazione, che a sua volta è un metodo di apprendimento. Nel senso che mentre fai formazione impari anche qualcosa: tutti questi incontri con albergatori, in questi quarant’anni, sono stati un costante scambio di punti di vista che mi ha permesso di conoscere sempre le problematiche dal di dentro.

Pubblichiamo una rivista e dei manuali, per diffondere conoscenza. E infine accompagniamo gli albergatori in giro per le città europee, a visitare strutture interessanti.

Che cosa dice ai giovani che vogliono intraprendere questo mestiere?

Quello che ho imparato soprattutto, in questi anni, è che anche il nostro settore, come tutta la società, cambia e ha subito un’accelerazione grazie alla tecnologia. Ma quello che non è mai cambiato è l’essenza stessa dell’ospitalità.

Cambiano gli strumenti, cambiano gli ambienti, il design, le attrezzature, ma quello che non cambierà mai sono i principi dell’accoglienza: l’empatia, la disponibilità e il sorriso erano e sono fondamentali. Non si può fare questo mestiere se non si amano le persone.

Quello che dico ai giovani quindi è: “Se volete avere successo in questo settore non dovete mai dimenticare che il vostro lavoro è servire gli ospiti, che non significa servilismo, significa mettersi a disposizione”.

Un aspetto fondamentale è saper coltivare le relazioni, professionali e personali, con gli ospiti e con i collaboratori. È quella che io chiamo serve-leadership, che significa mettersi al servizio degli altri. Saper essere accoglienti con il prossimo, con i clienti, con i dipendenti, con tutte le persone con cui si ha a che fare.

Ai giovani dico anche che io cambierei il nome del settore, da hospitality a happytality, il settore della felicità. Un albergo è un posto dove le persone desiderano, amano, andare e ci vanno per stare bene. E anche le persone che ci lavorano devono essere felici di farlo, per cui serve una vera vocazione.

Quali sono i trend in atto in questo momento storico?

Oggi molti clienti hanno bisogno di avere un posto in cui lavorare e strumenti per farlo. Perché vogliono coniugare lavoro e vacanza, o lavoro e pleasure. Crescono le vacanze detox, all’insegna di benessere e longevity, e c’è sempre più interesse per l’experience.

Un altro trend destinato ad avere un grande impatto è quello della sostenibilità, perché sempre più clienti ne tengono conto.

C’è poi tutto l’aspetto tecnologico: il cliente si aspetta di trovare connessioni, dispositivi, e inoltre è abituato a servirsi di strumenti come intelligenza artificiale e voice control.

Ma, tornando a prima, tutto questo non sostituisce il sorriso: va bene l’albergo hi-tech ma dal volto umano.

Tra le nostre varie attività, di recente abbiamo ristrutturato un albergo a Rimini. Si chiama DEMO, Design Emotion Hotel, e conta 9 suite affidate a 14 architetti. È un albergo innovativo nel concept, perché abbiamo per esempio il self check in e altre soluzioni tecnologiche. E ora stiamo completando un secondo albergo che ha come focus proprio il tema della sostenibilità. Qui sono all’opera 12 tra i più importanti studi di architettura alberghiera d’Italia, e abbiamo riciclato perfino il nome, da DEMO a MODE.

Che cosa ne pensa di Cinquerosso Arte, e in generale delle opere d’arte nell’hospitality?

È una tendenza che cresce, anche se ancora non abbastanza. Ci sono per esempio gli Art hotel, che sono pensati intorno a questo principio. Ma l’arte può essere presente a vari livelli, anche in elementi decorativi.

Purtroppo siamo ancora indietro, perché spesso la scelta delle opere d’arte viene lasciata per ultima. Quando sono finiti i soldi, e non sempre ne viene riconosciuta l’importanza.

Per quanto mi riguarda invece, nell’albergo che stiamo preparando, il MODE, gli architetti hanno deciso di mettere un’opera d’arte al posto della tv, e un giorno mi piacerebbe creare un albergo coinvolgendo degli street artist. Insomma, per me l’arte è molto importante. Perché? Perché migliora la vita.

Tutti apprezziamo la bellezza, che è una componente fondamentale della felicità di cui parlavo prima, dell’happytality appunto.  

Leggi l’articolo sul progetto artistico per l’Hotel U Visionary di Venezia!

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U-Visionary Venezia, luxury hotel con il tocco di Cinquerosso Arte 

L’eleganza di un hotel da sogno, con tutto il fascino di una città senza tempo: U-Visionary Venezia è l’esempio perfetto di come l’opera d’arte può inserirsi nel concept di un interior design di pregio. 

Le figure oniriche di Giulio Rigoni, le espressive geometrie di Luca Brandi e i fregi misteriosi di Icaro completano gli interni del nuovo albergo di lusso inaugurato a gennaio 2025 nella Serenissima.

Dopo U-Visionary Roma, pensato per offrire agli ospiti “un’occhiata sull’eternità”, nasce infatti U-Visionary Venezia, che invece apre lo sguardo verso luoghi lontani. Visioni sul tempo e sullo spazio, dunque, nate per volontà dell’imprenditore Fabrizo Pacini: l’intento è di portare il visitatore in un viaggio dentro al viaggio, in cui il soggiorno in albergo non è solo una sosta ma un’esperienza a sua volta.

Il concept di U-Visionary Venezia, ideato dall’architetto Daniele Chiocchio, ruota tutto intorno al ruolo della città come ponte tra Oriente e Occidente. Negli ambienti ritroviamo una sapiente fusione tra l’eleganza sobria di un design all’avanguardia e le suggestioni esotiche che rimandano ai viaggi dei velieri carichi di spezie, ai racconti di Marco Polo, a quel crocevia di popoli e culture che Venezia è da sempre.

In un progetto così curato in ogni dettaglio, la scelta delle opere d’arte è stato un passaggio chiave: occorreva infatti inserire opere con un proprio carattere, che sapessero essere distintive senza risultare invasive, e in perfetta sintonia con il concept di interni.

Ecco quindi che sono stati scelti artisti che, con stili e sensibilità diverse, portano l’osservatore in un’ideale passeggiata che dalle calli veneziane giunge fino all’estremo Oriente.

Ritroviamo infatti Icaro con i suoi “Botales”: fotografie di antichi batacchi che rappresentano creature a metà tra l’umano e il mondo animale, figure di confine come Venezia stessa. Con i loro bianchi e neri conturbanti, le immagini di Icaro echeggiano i misteri e il fascino di questa città.

Anche Giulio Rigoni presenta figure a metà tra due mondi, ma nel suo caso ci muoviamo nel territorio tra sogno e realtà, con architetture arabeggianti a dorso d’elefante, e volti dalle espressioni indecifrabili, tra iconografia bizantina e ritrattistica rinascimentale.

Le opere di Luca Brandi, infine, con le sue linee che si intersecano e compenetrano, evocano gli ambienti del Sol Levante, dalle forme delicate dei giardini zen a quelle geometriche degli interni delle case giapponesi.

Ogni opera, quindi, è un “Touch of Infinity”, per usare le parole con cui U-Visionary Venezia si presenta.

Leggi l’intervista a Fabrizio Pacini!

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Fabrizio Pacini – Un imprenditore visionario nell’hötellerie di lusso

Ha aperto i battenti U-Visionary Venezia, lussuoso e suggestivo hotel nei pressi del Canal Grande, sotto la guida di Fabrizio Pacini, imprenditore che opera tra Roma e la Serenissima. Insieme all’architetto Daniele Chiocchio, Pacini ha scelto Cinquerosso Arte per una selezione di opere in sintonia con il concept; cogliamo quindi l’occasione per parlare di hospitality e arte con un interlocutore di grande esperienza.

Signor Pacini, ci racconta la sua storia imprenditoriale?

La mia storia inizia da lontano, circa 32 anni fa. All’epoca avevo un’impresa di costruzioni, e ben presto sono diventato general contractor specializzato in ristrutturazione di alberghi chiavi in mano. In questa veste ho realizzato strutture per conto terzi a Roma e in tutta Italia, e per un periodo di circa dieci anni sono stato anche il braccio operativo della Federalberghi Lazio. Nel 2012 c’è stata una forte contrazione nel settore dell’edilizia, e quindi ho deciso di cambiare: anziché realizzare alberghi per conto terzi, ho deciso di farlo per me. In quel momento ero in società con altri due soci. Abbiamo quindi lavorato alla realizzazione di diversi alberghi, raggiungendo ottimi risultati. Poi è arrivato il cambio generazionale. Avevamo tutti dei figli, e così abbiamo deciso di dividerci gli alberghi e proseguire ognuno per la propria strada.

Ad oggi ho tre strutture a Roma, e ne sto realizzando adesso una quarta. Ho deciso di aprirne una a Venezia, perché è una piazza molto importante. Possedere alberghi a Roma e Venezia ci mette in una posizione di grande vantaggio quando stringiamo accordi con le agenzie in tutto il mondo. Adesso stiamo cercando di chiudere un’operazione per cui, a breve, dovremmo aprire anche un albergo di alto livello in montagna.

Riguardo all’hotel di Venezia, qual è il concept a cui vi siete ispirati?

Per U-Visionary di Venezia, come per quello di Roma, mi sono affidato al mio architetto di fiducia, Daniele Chiocchio. E nella realizzazione di questo albergo Daniele si è ispirato al ruolo di Venezia come porta verso l’Oriente. Un ruolo che ha radici nella sua storia di Repubblica marinara, e che si respira in tante delle sue architetture. Dopo aver personalmente preso contatti con Francesca Fazioli, ho indirizzato Daniele verso Cinquerosso Arte; abbiamo così incontrato Francesca, abbiamo visto con lei la collezione e scelto insieme le opere che più si armonizzavano con il nostro concept.

Che cosa pensa in generale del rapporto tra Arte e Hötellerie?

Parlando da un punto di vista personale, sono molto sensibile all’arte. Del resto, vivo in Italia, che possiede una grandissima parte del patrimonio artistico mondiale, e lavoro tra Roma e Venezia, che a loro volta ospitano una grandissima parte di questo patrimonio. Da un punto di vista professionale questa è una grandissima opportunità: significa che possiamo offrire ai nostri ospiti anche una finestra privilegiata sulla bellezza.

Poi c’è l’arte che portiamo all’interno delle nostre strutture, come è successo con U-Visionary Venezia, o come è successo a Roma, dove collaboriamo da tempo con un artista.

I nostri sono alberghi di lusso, in cui ogni particolare è pensato con estrema cura, e dunque anche le opere d’arte devono essere di un certo livello. Il cliente vuole essere coccolato e noi ci impegniamo per questo, dalla cucina, alle accortezze che riguardano il comfort, ai profumi. In questo anche l’arte ha un peso, perché crea sensazioni piacevoli. Come dico spesso, noi tante volte viviamo emozioni senza sapere bene il perché. L’esperienza di un cliente in un albergo è così: magari non si rende conto di che cosa lo faccia stare così bene, ma sta bene. Questo è quello che conta.

Leggi l’intervista ad Alberto Apostoli!

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Alberto Apostoli – Architettura, benessere, arte: quando la persona è al centro

Alberto Apostoli non ha bisogno di presentazioni. Leader internazionale nella progettazione di spa, il suo Studio Apostoli , è ben noto nel mondo dell’hötellerie. È quindi un grande onore e privilegio avere l’occasione di parlare con lui di architettura del benessere, e del ruolo dell’arte.

Architetto, la filosofia che ispira i suoi progetti è il binomio architettura e benessere. Può tratteggiarla per i nostri lettori?

La filosofia progettuale che perseguo da sempre è quella di un’architettura come strumento, cioè come mezzo per la creazione di benessere anziché fine a se stessa. Al netto dell’impatto estetico che l’architettura ha sulle persone, non mi fermo mai al semplice esercizio formale o architettonico.

Cerco sempre di immaginare quale sarà il beneficio per le persone in una certa scelta architettonica, un certo uso del colore e delle forme, una certa dimensione degli spazi; penso a quali saranno le funzioni, il rapporto tra interno ed esterno, e ogni altro dettaglio. Considero tutto questo alla luce dell’impatto che avrà su mente, corpo e anima. Interrogarsi sulla migliore soluzione per il benessere della persona è un cambio di paradigma progettuale molto importante: l’effetto estetico, il gesto artistico o il gesto tecnico – insomma, gli aspetti formali – sono subordinati alla ricerca di una dimensione di benessere.

Non è sempre facile, ma il payoff del mio studio è appunto “creatore di benessere attraverso l’architettura”.  

Quali sono le sfide che deve affrontare un architetto in questo ambito, e che cosa c’è di diverso rispetto ad altri?

Nell’architettura del benessere dobbiamo considerare il cliente finale e lo staff, e dobbiamo considerare la sensorialità degli spazi, cioè l’uso dei 5 sensi: la vista, naturalmente, ma anche l’olfatto, il tatto, l’udito e in parte anche il gusto. E poi c’è la quint’essenza, quella sorta di sesto senso che si innesca quando si verificano situazioni particolarmente cariche a livello emotivo. Questa è una prima peculiarità, se consideriamo il nostro lavoro da un punto di vista poetico-artistico.

Ci sono poi difficoltà intrinseche del settore benessere tra cui, per esempio, la componente impiantistica. E dobbiamo anche valutare lo stress a cui sono sottoposti materiali e superfici: pensiamo alle temperature in gioco, pensiamo all’uso dell’acqua, all’umidità degli ambienti. Inoltre dobbiamo tenere conto del fatto che i clienti si muoveranno seminudi, o scalzi, o che non potranno usare gli occhiali e avranno quindi una capacità visiva minore.

Dovremo quindi avere alcune accortezze tecniche molto specifiche, e diverse rispetto a quelle di altre architetture. Infine, ma non per importanza, occorre conoscere molto bene la macchina benessere; serve cioè una piena consapevolezza di come gli spazi vengono utilizzati, gestiti e manutenuti. L’esperienza del benessere non dipende solo dall’architettura, ma anche dal servizio, in particolare in termini di comfort. Questo significa saper prevedere e valutare come si muoverà lo staff, come si muoverà il cliente: una caratteristica che il mondo del benessere ha in comune con quello della ristorazione. Non possiamo progettare qualcosa di bello, se poi non è funzionale.

Voi vi occupate anche di design del prodotto. Quindi, oltre agli spazi, ideate anche ciò che questi spazi contengono…

Sì. Progettare prodotti implica dover tenere conto di tutto quello che ho detto in termini di funzionalità, ma per noi significa anche dare importanza alla multisensorialità. I prodotti che disegniamo parlano, di solito, non solo alla vista ma anche agli altri sensi, e in questo siamo molto attenti alla componente tecnologica. Inoltre, nella stragrande maggioranza dei casi bisogna considerare una certa ritualità, una certa liturgia dell’oggetto. È un aspetto che mi affascina molto, ed è veramente specifico del mondo del benessere. Se pensiamo per esempio a un massaggio, a una sauna, a un certo uso dell’acqua, notiamo una ritualità che in alcuni casi diventa una sorta di liturgia: una ritualità ricorrente e normata.

Teniamo conto che il mondo del benessere è spesso legato a pratiche e filosofie di origine orientale, e ne porta le tracce. Il principale effetto di queste liturgie è quello di mettere ordine tra le azioni: se non è necessario chiedersi che cosa fare, è più facile concentrarsi sull’hic et nunc.

Ovviamente dobbiamo tenere conto del mercato, delle tecnologie disponibili, dell’ergonomia, ma come dicevo diamo grande rilevanza all’aspetto liturgico.

Qual è il ruolo dell’arte in tutto questo?

Nel mondo del benessere l’arte rientra in tutte le sue forme, dalla pittura alla musica, ma è un’arte anche l’uso della luce, o la cucina. L’arte figurativa in particolare è fondamentale perché enfatizza o interpreta il concept generale. Se pensiamo al settore dell’hospitality, lo storytelling di un hotel passa anche attraverso le opere d’arte incluse nell’opera architettonica, che hanno il potere di caricare, concentrare, sintetizzare un pensiero. Il cliente medio non può comprendere pienamente uno storytelling complesso come quello di un hotel, ma ne può percepire l’essenza con una semplice immagine.

Questo è vero anche, e soprattutto, nel settore del benessere. Per fare un esempio: nel caso di una cabina, devo scegliere opere diverse a seconda che si pratichi una ritualità nordica, piuttosto che thailandese, per comunicare in modo efficace e creare la giusta atmosfera.

Che cosa pensa di Cinquerosso Arte, e dell’idea di una galleria dedicata principalmente all’hötellerie?

L’idea di Cinquerosso Arte è assolutamente in linea con le esigenze di questo settore, perché offre una varietà e una complessità di proposte artistiche molto interessante. Chi, come noi, si ritrova a dover enfatizzare concetti complessi, ha bisogno di un catalogo vastissimo e di tantissimi stimoli. In alcuni casi estremi, si potrebbe partire proprio dall’opera d’arte e costruire intorno a essa un concept.

Cinquerosso Arte propone artisti molto diversi tra di loro, ognuno con il proprio stile e la propria interpretazione, e potrebbe essere interessante commissionare delle opere sulla base di alcune specifiche del progetto.

Ci è capitato di farlo, cioè di rivolgerci ad artisti con una sensibilità affine al concept e chiedere loro di interpretarlo, di lasciarsi ispirare. Si tratta di un lavoro su commissione, ma questo non toglie nulla al valore artistico: basti pensare alla Cappella Sistina, che è un esempio eclatante di quello che si può creare in seguito a una commessa.

Il mio studio dà sempre al cliente indicazioni, se non addirittura prescrizioni, circa l’aspetto decorativo, e in questo rientra anche la scelta delle opere d’arte. Bisogna considerare, infatti, che in questo tipo di scelte incide molto il gusto personale, ma può capitare che i gusti della proprietà vadano a discapito del risultato finale, a prescindere dalla qualità delle opere stesse.

Un’opera d’arte meravigliosa può rovinare uno storytelling con cui non è in sintonia, ed è per questo che occorre andare oltre il gusto personale e scegliere con cognizione di causa, soprattutto nel settore hötellerie.

Leggi l’articolo su Tuttohotel 2025!

Cinquerosso Arte partner di Studio Apostoli a Tuttohotel 2025

Con una partnership di grande prestigio, Cinquerosso Arte allestirà con le sue opere d’arte l’installazione Wellness Nostrum progettata da Studio Apostoli per Tuttohotel 2025, la fiera dedicata all’hospitality, che si terrà dal 20 al 22 gennaio in occasione della Mostra d’Oltremare di Napoli.

Wellness Nostrum, questo è il concept che ispira l’installazione progettata da Studio Apostoli: uno spazio espositivo che riproduce gli ambienti, gli arredi e le amenities di un hotel con spa in un contesto mediterraneo; all’allestimento di questo spazio, Cinquerosso Arte contribuirà con le opere d’arte dei suoi artisti italiani emergenti.

Quella tra l’Architetto Alberto Apostoli e Francesca Fazioli, prima ancora che una collaborazione, è l’incontro tra filosofie convergenti. Da una parte l’architettura e il design per il wellness, dall’altra l’arte portatrice di bellezza e generatrice di emozioni.

Con Wellness Nostrum, i visitatori potranno dunque vivere l’esperienza di muoversi all’interno di un ambiente armonioso, che evoca i colori, le luci e le atmosfere del sud, ed è stato pensato per il relax e il benessere del corpo e dello spirito. Texture e materiali naturali, che richiamano la terra, archi e vetrate che annullano la divisione tra interno ed esterno, e opere d’arte che contribuiscono a creare una sensazione di compiuta serenità.

Studio Apostoli, brand notissimo nel mondo dell’hötellerie – e non solo -, è un atelier di architettura, interior design, ingegneria e design di prodotto, leader internazionale nella progettazione di spa. La sua missione, infatti, è creare benessere attraverso un equilibrio compositivo frutto di pensiero, tecnologia, sostenibilità e integrazione con il territorio.

«La collaborazione con Studio Apostoli è per noi motivo di grande soddisfazione, oltre che di stimolo per nuove idee – commenta Francesca Fazioli, titolare di Cinquerosso Arte. – Per Wellness Nostrum abbiamo scelto le opere di due artisti che riteniamo in perfetta sintonia con il concept: Rocco Casaluci, con le sue fotografie di piante spontanee dell’area mediterranea, così potenti nel loro richiamo alla terra, e Marcello Niccodemi, con le sue immagini che sono intrecci di linee sinuose, capaci di ispirare una sensazione di pace interiore. Siamo convinti che la scelta delle opere d’arte sia un elemento chiave in ogni progetto di interni, a maggior ragione quando si tratta soprattutto di suscitare emozioni positive.»

Lo spazio espositivo Wellness Nostrum si troverà al Padiglione 10 dell’area Vision Hotel.  

Leggi l’intervista ad Alessio Privitera!

paesaggio industriale

Alessio Privitera – Le meraviglie della percezione

Psicologo e appassionato di paesaggi urbani e industriali, Alessio Privitera gioca con le forme e con le dimensioni per irretire gli occhi. Niente è ciò che sembra, e questo richiede allo spettatore di partecipare al processo comunicativo che l’opera avvia.

Alessio, parlaci di te.

Sono laureato in psicologia e ho sempre avuto interesse per l’arte, anche perché ho uno zio pittore, specializzato in paesaggi, e mio padre è un professore di disegno tecnico. Attraverso i miei studi mi sono interessato molto alla percezione e ho avuto modo di collaborare con Gabriele Devecchi, un artista e designer che ha molto lavorato su questo aspetto. Insieme a lui ho realizzato una stanza di Ames, cioè un ambiente le cui linee prospettiche traggono in inganno l’occhio a tal punto che due persone poste agli angoli sembrano di dimensioni molto diverse, anche se in realtà sono uguali.

Sono rimasto molto affascinato dal tema della percezione, e da lì ho iniziato a sviluppare il mio stile combinandolo con un’altra delle mie passioni, l’esplorazione urbana. In pratica mi piace girare per le città alla ricerca di fabbriche abbandonate, ciminiere, raffinerie, acciaierie, ambienti metropolitani orfani.

Che cosa ti affascina di questi paesaggi?

Mi piacciono da un punto di vista estetico, perché sono carichi di dettagli; sono quadri di per sé, anche se in realtà sono ecomostri, perché si tratta di strutture ingombranti che deturpano la natura intorno. Sono rimasto particolarmente impressionato durante un viaggio in Giappone, dove ho notato come – per esempio – il mare non sia visto per la sua bellezza ma solo come strumento di lavoro, e di conseguenza non ci sia nessuna attenzione per preservarlo. Malgrado questo, i paesaggi industriali abbandonati sono per me estremamente interessanti. Le acciaierie e gli altoforni, soprattutto, mi affascinano per la loro grande ricchezza di particolari. Di notte, quando si illuminano, sono molto suggestivi.

E come si combinano paesaggi urbani e illusioni ottiche?

Si combinano attraverso un’altra mia passione, quella per i microchip. In questi circuiti vedo e ho sempre visto ambienti industriali. Ecco, quindi, che scatto macro foto di schede madri, e poi ci disegno sopra raffinerie o industrie. La percezione viene ingannata, perché chi guarda le mie opere vede ambienti molto grandi, mentre il materiale di partenza è minuscolo. Mi sono ispirato molto a Mario Sironi, a Lowry, a Diego Rivera, cercando di sviluppare un mio stile personale. C’è voluto tempo, e finora non mi sono mai posto come obiettivo quello di vendere i miei lavori. Oggi mi sento piuttosto soddisfatto e inizio a uscire allo scoperto, ma il mio scopo rimane quello di infondere curiosità e fare in modo che lo spettatore sia attivo, non passivo.

Mi piace pensare che una persona, passando accanto a una mia opera, si fermi a osservarla, si faccia delle domande. Mi piace l’idea che non sia una comunicazione a senso unico da parte dell’artista, perché lo spettatore vede, interpreta, formula domande e risposte.

Cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Sono rimasto veramente impressionato dalla stampa in fine art. Ho visto dal vivo le stampe e non mi aspettavo una resa così precisa dell’originale: si vedono perfino gli strappi, i segni sulla tela. Davvero incredibile. Nel mio caso, è interessante perché mi permette di modificare le dimensioni dei miei lavori, che in originale sono al massimo di 20 o 30 cm per lato, e farli diventare molto più grandi, senza perdere alcun dettaglio.

Leggi l’articolo sull’Installazione artistica per InOut 2024!

installazione artistic

Arte per l’Hospitality, un valore che crea valore

Attraverso un’emozionante installazione artistica, Cinquerosso Arte esplora il concetto di “Veritas”, parola chiave di InOut 2024.

Ottobre 2024 – Per il secondo anno consecutivo, in occasione di InOut 2024, Cinquerosso Arte allestisce l’area delle piscine interne della Fiera di Rimini con un’installazione, commissionata da IEG, composta da 12 opere dei suoi artisti emergenti.

Una filosofia perfettamente in linea con il tema Veritas, che ispira questa edizione della fiera.

In un contesto di sovraffollamento visivo e informativo, dove è difficile distinguere il vero dal falso, l’autenticità è un valore aggiunto non più trascurabile. Le aziende hanno bisogno di accreditarsi come affidabili, e il viaggiatore ha la necessità di orientarsi in una vastità di scelte. Qui risiede l’importanza, per un albergo, di opere d’arte autentiche, originali, frutto del lavoro di artisti e non semplici riproduzioni anonime. Opere dal forte impatto comunicativo, che testimoniano cura e attenzione nei confronti dell’ospite e contribuiscono a creare un ambiente dalla forte personalità.

 “La cura e la bellezza finalmente incontrano il mondo dell’ospitalità – sottolinea Gloria Armiri, Group Exhibition Manager Tourism & Hospitality Division di IEG -. Sono convinta che questa installazione possa fungere da stimolo agli albergatori, cosicché le aree comuni diventino sempre più luoghi attrattivi non solo per la qualità del servizio, ma anche per la piacevolezza estetica, trasformandosi in occasione di arricchimento culturale”.

Le opere selezionate per l’installazione sono state realizzate da Bad Mandala, Silvia Bardani, Riccardo Basaglia, Anita Bortolotti, Giulia Brandelli, Erika Garbin, Filippo Manfroni, Marcello Niccodemi, Mattia Perru e Chiara Sgarzi e sono riprodotte in 12 bolle sospese sull’acqua. La scelta della forma sferica, così insolita rispetto alla bidimensionalità della tela o della fotografia, vuole sottolineare l’importanza della visione certa. La sfera, da sempre simbolo di unità, non presenta angoli morti, zone d’ombra, ambiguità: l’opera, quindi, si offre in pieno allo sguardo, da qualunque punto di vista, e diventa quindi emblema di Veritas.

Cinquerosso Arte nasce con l’intento di offrire al mondo dell’hôtellerie opere d’arte di grande qualità con prezzi accessibili. Opere, quindi, in sintonia con l’identità delle strutture alberghiere, capaci di aggiungere valore all’interior design, pur restando compatibili con qualsiasi budget di spesa.

Dato l’ampio catalogo e la varietà di artisti che collaborano con Cinquerosso Arte, le opere possono essere scelte affinché aderiscano perfettamente allo stile dell’albergo e favoriscano un’esperienza di soggiorno memorabile. In sintesi, fanno in modo che la struttura alberghiera si qualifichi come dotata di un’identità chiara e distinguibile, requisito essenziale per emergere dalla massa e risultare affidabile.

Leggi l’intervista ad Alessandra Scandella!

Alessandra Scandella – Lascio accadere l’imprevedibile

Alessandra Scandella lascia accadere l’imprevedibile. Artista e insegnante, cerca, nelle sue opere, l’inaspettato tipico di tutto ciò che è vivo. Per questo ama gli acquerelli, così materici, mutevoli ed espressivi da poter raccontare ogni genere di storia.

Alessandra, qual è stato il tuo percorso formativo?

Mentre frequentavo l’università ho studiato illustrazione alla Scuola superiore di arte applicata del Castello Sforzesco, a Milano. Ho iniziato subito a lavorare nella pubblicità, ma cercando un mio stile, che mi rappresentasse, che mi piacesse. Per questo mi sono dedicata agli acquerelli e agli inchiostri, e da allora ho sempre utilizzato queste tecniche perché voglio partire dalla manualità. Amo l’aspetto imprevedibile della macchia e credo che questo faccia la differenza, soprattutto in un periodo di intelligenze artificiali ed elaborazioni digitali.

Non ho alcun rifiuto nei confronti di questi strumenti, ma vanno comunque calibrati. È uno degli argomenti che tratto anche nei miei corsi.

 Perché sei anche insegnante…

Sì, sono docente allo IED e alla Scuola internazionale di Comics di Milano, dove insegno acquerello e inchiostri. Mi piace molto lavorare con i ragazzi, e propongo un percorso che parte dallo studio della tecnica per poi arrivare a un progetto finale, conservando sempre un qualcosa di artigianale e manuale. Un esempio che faccio spesso è quello del ritratto: puoi partire dallo stesso soggetto e ritrarlo dieci volte, e avrai sempre dieci risultati diversi.

Puoi descriverci le tue tecniche?

Come dicevo, amo l’acquerello perché mi permette di esprimere il mio stile, con la sua imprevedibilità. Utilizzo tantissimi rossi, aranci, viola, oro, molto intensi e concentrati, cioè usando poca acqua, per grandi campiture, alternandole ad altre che invece sono molto velate, molto trasparenti. Non amo l’acquerello sbiadito, lo preferisco concentrato perché dà più energia all’opera. Inoltre lascio sempre campiture bianche, perché secondo me il bianco sottolinea il colore e il disegno, dà più forza ai dettagli. Un’altra caratteristica che apprezzo dell’acquerello è il fatto che, rispetto all’acrilico e ad altre tecniche, lascia sempre qualcosa in sospeso. Un po’ come in alcune poesie, in cui ci sono tanti significati anche in quello che non viene detto.

Ai miei ragazzi dico spesso di non aver paura a usare acqua, lasciando che formi delle macchie, che racconti delle storie. Dico loro di “entrare” nelle macchie e disegnare a partire da lì.

In quali ambiti lavori?

Oltre alla pubblicità, lavoro molto nell’interior design, per la decorazione d’interni. Per esempio realizzando carta da parati. Inoltre lavoro per il settore della moda e quello della bellezza. Sono tutti ambiti in cui posso esprimere il mio stile e utilizzare le mie tecniche nel modo che sento più vicino a me. Mi capita anche di fare delle mostre, cosa che mi piace molto perché mi permette di esporre la tavola originale. I lavori che realizzo per i miei clienti, infatti, partono da un’esecuzione manuale – il disegno, lo schizzo, l’inchiostro, l’acquerello, le macchie –  e hanno poi un passaggio in digitale, con scansioni ad alta definizione. In questo modo posso conservare l’originale, fare le necessarie revisioni e consegnare un prodotto pronto per la stampa. Nel caso delle mostre, invece, consegno le tavole con tutte le tracce più evidenti della manualità, gli imprevisti, ed è quindi un’altra dimensione.

Puoi raccontarci qualcuna delle tue esperienze?

Amo molto il tema del viaggio, quindi sketchbook, carnet de voyage, e così via. Ultimamente mi è capitato di collaborare con Moleskine ed MSC Crociere, che insieme hanno progettato un’agenda con illustrazioni ispirate a tutto il mondo: i continenti, le culture, l’arte, l’alimentazione. Insomma, una manna per chi fa il mio mestiere. Mi piace tantissimo raccontare attraverso il disegno quello che non si può esprimere a parole.

Un altro progetto molto stimolante è stata una serie di ritratti per Domus, storica rivista dedicata all’architettura. In questo caso si trattava di raccontare, attraverso le immagini, le persone. Tra i lavori più recenti, ne ricordo uno per San Pellegrino in cui ho raccontato l’azienda, le sue persone e i suoi luoghi, tra cui una bellissima riserva naturale in Toscana. Con il mio studio ho realizzato anche animazioni per diversi clienti, tra cui una per Bulgari. In questo caso è bellissimo vedere l’acquerello in azione, il formarsi della macchia, i colori in movimento che raccontano davvero delle storie.

Con Cinquerosso Arte, infine, sto lavorando proprio sul tema della natura e del paesaggio. Credo che gli acquerelli si prestino molto bene a questo tema, visto che sono naturali, non sintetici come gli acrilici. Ho sempre con me gli acquerelli quando viaggio. Realizzo vedute di città, paesaggi, marine, o magari persone ai tavolini di un caffè; oppure disegno figure a metà tra l’umano e il mondo vegetale, donne vestite con abiti in cui non si capisce che cosa è tessuto e che cosa è pianta, foglia, fiore.

A proposito di Cinquerosso Arte, come ti stai trovando in questa collaborazione?

Mi trovo molto bene! Apprezzo tantissimo la cura per il dettaglio, in particolare per quanto riguarda la stampa fine art. Vedo che c’è un vero interesse verso la qualità e la professionalità, ben oltre gli aspetti puramente commerciali. Insomma, è una bella avventura e ho tutte le intenzioni di dare il massimo in questa collaborazione.

Leggi l’intervista a Francesco Zurlini!

astratto collage

Francesco Zurlini – Non bisogna mai fermare il motore creativo

Artista affermato, astrattista nell’anima, Francesco Zurlini porta in Cinquerosso Arte i suoi Studi, la sua esperienza e la sua carica di positività. Pensa che non bisogna mai fermare il motore creativo.

Francesco, raccontaci la tua storia.

Dipingo da tantissimi anni, quindi rispetto ai giovani che ho incontrato in Cinquerosso Arte mi sento un po’ un nonno. Provengo da una famiglia di artisti, dal momento che mio padre era un regista di cinema, appassionato e collezionista d’arte. È lui che mi ha iniziato a questo mondo, nel senso che mi ha fatto amare l’arte contemporanea da quando ero poco più di un bambino.

Ho avuto diverse fortune in questo lungo cammino, che è stata inizialmente quella di venire a contatto con i grandi maestri dell’astrattismo italiano degli anni ’60/’70, in special modo Afro Basaldella, da cui ho ereditato l’amore per la pittura astratta. A un certo punto della mia vita ho sentito il bisogno di mettermi alla prova. Avevo una sorta di visione delle cose, un mio senso estetico, un percorso che si sviluppava ogni qual volta andavo a una mostra e mi accorgevo di rimanere incuriosito da alcune cose, e che avrei voluto rielaborarle in un altro modo. Quindi sono andato in un negozio e ho comprato tutto il materiale che mi serviva per incominciare a dipingere. È iniziata così, e sono arrivato a oggi, con più di 35 anni di carriera artistica.

Un passo decisivo e coraggioso.   

Io sostengo sempre che dentro ognuno di noi c’è un artista. Qualcuno ha una particolare predisposizione, ma se non ti metti mai alla prova non potrai mai sapere fino a che punto i tuoi pensieri, le tue voglie, le tue aspirazioni possano andare avanti. Io non ho mai avuto un maestro, non ho frequentato scuole d’arte, ho studiato quello che mi interessava. Mi sono confrontato con quelli che erano i miei artisti di riferimento, li ho approfonditi, li ho guardati, li ho analizzati.

Sono andato avanti a tentoni e tentativi, facendo i miei pasticci, affinando le tecniche e mischiandole. Da questo poi è venuto fuori con il tempo il mestiere. Perché anche l’artista ha bisogno dell’esperienza per avere consapevolezza di tutto quello che si ha a disposizione, soprattutto per quanto riguarda i materiali, che sono vari e differenti uno dall’altro. E come tutti i mestieri, più lavori, più affini l’ingegno e la pratica.

Che cosa differenzia quindi un artista rispetto a una persona che fa un altro mestiere?

Credo che sia una predisposizione mentale. Io sono un astrattista, quindi quando ho un’idea vedo proprio che mi si sviluppa in testa qualcosa su cui devo lavorare. Nel momento in cui l’idea non c’è bisogna comunque continuare a lavorare, perché è solo attraverso il lavoro che tu mantieni allenato il tuo fare, il tuo motore creativo. Nel momento in cui stoppi il motore creativo (lavori di meno, ti prendi un periodo di pausa, ti succede una sfortuna nella vita…), ti blocchi nella produzione. E si blocca anche la testa, l’inventiva.

Puoi raccontarci un episodio della tua carriera che ti è particolarmente caro?

Tenni la mia prima mostra personale a Bologna, durante un’edizione di Arte fiera in uno spazio meraviglioso in via Marsala. Ad un certo punto, entrò questo signore che si incantò di fronte ai miei quadri e mi volle conoscere. Era Giuliano Serafini, un importante critico d’arte, e mi disse una cosa che mi colpì: “Questa è stata la mostra più bella che abbia visitato in questa edizione di Arte fiera”. Volle addirittura curare il catalogo di una mia mostra successiva organizzata dal comune di Siena, al complesso museale di santa Maria della Scala.

Le opere in vendita con Cinquerosso Arte si chiamano Studi. Come mai?

Perché sono effettivamente degli studi. Appartengono a una piccola produzione su carta che ha una funzione ben precisa nella mia pittura, che è quella di raccogliere le idee. Quando ho bisogno di studiare, di fare tentativi, prove di accostamento di colore e così via, lavoro su bozzetti. Ma definirli bozzetti è fuorviante perché alla fine diventano opere finite. Non riesco mai a lasciare una cosa a metà, o semplicemente mettere insieme due colori e vedere come stanno. Questo è un po’ il mio limite perché sono molto lungo nel completare un’opera,  e quindi potrebbe sembrare che io perda tempo nel provare formati o supporti che poi magari rimangono dentro un archivio. In realtà è una fase importante: solo attraverso questo studio riesco a raccogliere le idee per poi dipingere su tele di tre metri per tre metri, per esempio.

Cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Oltre al fatto che mi lega a Francesca una lunga amicizia (ci conosciamo da trent’anni!), ho accettato con molta gioia anche perché non avevo mai fatto delle mie opere una stampa, e sono rimasto molto sorpreso: non mi aspettavo una resa cromatica e una resa della texture così raffinata.

Basti pensare che posso usare il bianco in dieci maniere differenti, posso fare una sola pennellata, o cinque, o venti. La stampa Fine art ha il merito di riuscire a rendere questi effetti di spessore in modo sorprendentemente fedele all’originale.

Leggi l’intervista a Filippo Manfroni!

corpi pittura

Filippo Manfroni – Raccontare attraverso il corpo

Illustratore e visualizer per grandi agenzie di pubblicità, Filippo Manfroni si è avvicinato alla pittura spinto dall’urgenza di raccontare. Protagonista delle sue opere è il corpo, a cui è affidato il compito di celebrare la ricerca del senso dell’esistenza.

Filippo, parlaci di te e del tuo rapporto con la pittura.

Credo che tutto sia nato da un bisogno di raccontare. Sono sempre stato affascinato dalle storie. Leggere un libro, guardare un film, ascoltare un racconto significa vivere esperienze grazie alla pura forza dell’immaginazione. Affascinato da tutto questo, dopo aver studiato arte a Urbino mi sono trasferito a Milano per studiare fumetto. Ho tentato con il linguaggio delle graphic novel, ma mi sono reso conto che non era la mia strada e ho fatto un passo indietro. Del resto non puoi trarre il meglio da te stesso se ti ostini a inseguire l’obiettivo sbagliato. Ho capito che io potevo essere più bravo a condensare un racconto in un’immagine e da allora mi sono dedicato a coltivare questo talento con tutte le mie energie.

E non è stato facile.

Quali difficoltà hai incontrato?

Intanto, ho dovuto imparare molto da autodidatta. Infatti, come dicevo, ho frequentato l’Istituto d’arte e la scuola di fumetto dove ho studiato disegno e non pittura. Quindi ho imparato a dipingere attingendo a diverse fonti, per prove ed errori. Ho presto spunto da dipinti che mi affascinavano, cercando di capire come fossero stati realizzati. Ho guardato tutorial che spiegavano come usare la tela e la tavolozza, e così via.

In parallelo c’è stato tutto il percorso per trovare la mia voce. All’inizio mi sono ispirato molto a Kent Williams, un graphic novelist che a sua volta deve molto a Schiele. Poi la mia pittura si è emancipata da questo bisogno di imitazione, e finalmente ho trovato una mia identità come pittore. Tutto questo attraverso tentativi, insuccessi e risalite, di cui sono molto orgoglioso.

Che cosa racconti nelle tue opere?

Racconto l’umano. Racconto le persone, le relazioni, gli stati d’animo, le passioni. A volte mi ispiro a qualcosa che ho visto, altre volte si tratta di me: le mie fantasie, le mie paure, i miei desideri, i miei fantasmi.

Le mie opere rappresentano corpi, o parti di corpi. I corpi possono essere raffigurati in diversi modi, a seconda di dove si tende. Si può tendere a esaltarne le forme e le linee, lavorando verso l’astrazione; oppure si può tendere a raccontare qualcosa, come faccio io. Cerco di dare un messaggio, di fissare un’intuizione.

Quando ero molto giovane ho avuto bisogno di trovare un modo per integrarmi con gli altri. E allora mi sono messo a osservarli: guardavo come si comportavano, come si muovevano, come comunicavano e si relazionavano tra loro. Sono diventato molto bravo a osservare e a capire gli altri, forse più di quanto non capisca me stesso. In particolare mi emoziona il nostro essere così fragili e così tormentati dal bisogno di capire perché siamo qui. Da questo senso di precarietà deve nascere, secondo me, la gratitudine. Dobbiamo essere grati di essere vivi. Ecco, è tutto questo che mi piace raccontare.

Che cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Penso che le opere scelte siano davvero di altissimo livello, e umanamente mi sto trovando molto bene. Sono dell’idea che ci sia bisogno di molta più bellezza e gentilezza. Il progetto di Cinquerosso Arte è fondamentale per il primo punto.

L’arte ha ovviamente costi elevati, spesso proibitivi, ma l’intuizione di diffondere la bellezza attraverso immagini di altissima qualità a prezzi contenuti è sicuramente valida. 

Leggi l’intervista a Enrico Pelissero!

milioni di segni in bianco e nero fitti

Enrico Pelissero – Voglio che lo spettatore si fermi a pensare

Enrico Pelissero vuole che lo spettatore si fermi a pensare. Writer ed esperto di diverse tecniche espressive, crede in un’arte capace di comunicare messaggi e indurre a riflettere. Le sue opere sono talvolta minuziose e ricchissime di dettagli, come pensieri articolati; altre volte istintive, impulsive come gesti.

Cosa descrivi nelle tue opere?

Intanto premetto che non mi sono mai soffermato su una tecnica o una tipologia di opera in particolare, e infatti mi dedico sia a disegno sia alla scultura. Quello che mi preme è affrontare un argomento, un tema che voglio prendere in esame e di cui intendo parlare perché secondo me ce n’è bisogno. Sono convinto che attraverso l’arte – qualsiasi forma di arte, che sia un dipinto, o una poesia – sia possibile far rimanere qualcosa o addirittura trascendere, andare oltre. Per questo non sono legato a tecniche o materiali. Tutto dipende da quello che voglio dire in quel momento, e in funzione di questo scelgo come esprimermi.

Quindi con le tue opere intendi soprattutto lasciare un messaggio?

Spesso sì, spesso si tratta di veri e propri “argomenti” che mi piace trattare. Ma mi capita anche, altrettanto spesso, di disegnare perché sento la necessità di farlo. In questo caso disegno per me e non per comunicare con gli altri o lasciare qualcosa. Disegnare in questo modo mi rilassa, e allora riempio pagine e pagine di linee e forme fittissime.

Ad ogni modo, tutto quello che faccio mi serve per attirare l’attenzione. Non so come possa essere interpretato questo da un punto di vista psicoanalitico, ma è qualcosa che mi spinge fin dall’inconscio: tutto è finalizzato allo spettatore, perché mi piace che si fermi a osservare e a pensare.

A che cosa ti ispiri?

A tutto quello che mi circonda, alle forme che esistono già in natura e che uso per realizzare paesaggi. Questi paesaggi sembrano quasi alieni ma in realtà sono molto concreti. A volte mi ispiro al microcosmo, ai batteri, a ciò che è invisibile perché microscopico. Insomma, ho davanti a me una pagina bianca, sento emergere qualcosa e mi impegno a fissare questo qualcosa sulla carta.

Una particolarità del mio lavoro è che uso quai sempre il bianco e nero. Non mi sento a mio agio con i colori.

Puoi raccontarci una delle tue opere per farci capire il tuo processo creativo?

Prendiamo per esempio l’opera “Un milione di segni”: l’ho pensata fin dall’inizio come una sezione di bosco, e via via l’ho riempita di dettagli. C’è un tronco qui, dei micro-fiori là, piante che si insinuano e rinascono. Da quella prima opera sono venute fuori altre tavole che si somigliano, come se fossero sempre echi di quella stessa voce. In “Pagliaccio”, invece, ho voluto fare un mio autoritratto truccato da clown, con il naso finto eccetera. Anche questo è un tema ricorrente: autoritratti un po’ malinconici, come se rappresentassero una mia seconda personalità.

Come ti trovi con Cinquerosso Arte?

La mia collaborazione è iniziata da poco, ma posso solo spendere parole positive. Non mi aspettavo che qualcuno si interessasse così tanto al mio lavoro, con la stessa dedizione che ci metto io. I risultati si vedranno con il tempo, ma mi sono sentito capito e seguito.

Leggi l’intervista a Giulia Gray!

opere miste della mostra

Una mostra per i due anni di Cinquerosso Arte

Sono passati due anni dal varo di Cinquerosso Arte, e quale modo migliore per celebrare questo traguardo se non mettendo in mostra tanta bellezza?

Sabato 4 maggio 2024, dalle 17.00 alle 22.00, a Bologna in via Remorsella 5/2 sarà esposta una selezione di pezzi unici. Un’occasione per ammirare, e acquistare, opere d’arte di artisti emergenti nel panorama contemporaneo.

Un festeggiamento che guarda al futuro, per un’impresa che – seppur giovanissima – ha già fatto tanta strada.

In questi due anni Cinquerossoarte.com è cresciuta e oggi può vantare circa 50 artisti che arricchiscono con le loro creazioni un vasto ed eclettico catalogo online.

Inoltre Cinquerosso Arte si è fatta conoscere, partecipando sia come espositore, che come curatore di installazioni site specific ad alcune tra le più importanti fiere dedicate all’arte, all’arredamento e all’hôtelerie. Da Maison&Object di Parigi, alla White Night di Arte Fiera di Bologna, da Hospitality di Riva del Garda, al SIA-Salone Internazionale dell’Accoglienza di Rimini. A quest’ultimo evento, peraltro, Cinquerosso Arte ha avuto un posto d’onore, confermato anche per l’edizione 2024: anche quest’anno, infatti, tornerà con un’imponente installazione artistica nell’area delle piscine del complesso fieristico.

È proprio al mondo dell’interior design che Cinquerosso Arte si rivolge con il suo servizio di consulenza ad architetti e progettisti. In particolare per quanto riguarda hôtel, navi da crociera, ristoranti di design e residenze private.

Nel tempo, il sito cinquerossoarte.com è stato arricchito con nuovi strumenti di navigazione. È ora possibile attraverso la Style Guide, filtrare le opere in base a diversi stili di arredamento: Minimal, Ethnic, Country, Neoclassic, Contemporary ecc. – ottenendo una selezione in sintonia con le esigenze di arredamento. E’ possibile inoltre filtrare le opere a seconda del soggetto e per differenti cromie e tonalità.

È cresciuta anche la gamma di possibilità a disposizione di chi decide di acquistare un’opera: oltre alla stampa Fine Art certificata di altissima qualità, che riproduce perfettamente l’originale, è stata aggiunta la possibilità di acquistare poster in stampa digitale, con un prezzo ancora più accessibile. Una grande novità degli ultimi mesi è l’opzione Wall Art in maxi formato, per decorare intere pareti o soffitti. Di alcune opere è inoltre possibile acquistare la licenza d’uso per poter stampare in autonomia.

Dal pezzo unico alla riproduzione in qualsiasi formato, Cinquerosso Arte è sempre a fianco dei professionisti alla ricerca di bellezza.

Arrivederci alla mostra del 4 maggio!

Leggi l’intervista a Giulia Gray!

gatti acquerello colori nude

Giulia Gray – L’evoluzione attraverso le piccole cose

Dopo anni di lavoro nel campo della moda, Giulia Gray ha deciso di dedicarsi all’arte e di esplorare, attraverso essa, l’umano. La sua è un’arte istintiva e meditata allo stesso tempo, dove confluiscono emozioni e studio, impeti e ragione.

Giulia, raccontaci di te.

Ho sempre dipinto e fotografato, sin da quando ero bambina e dipingevo già ad olio su tela. Da piccola avevo due grandi passioni: la pittura e la moda. Ho scelto di studiare e lavorare nel mondo della moda per tenere l’arte in una zona più “incontaminata”. Ho frequentato moda all’istituto d’arte a Firenze, poi il Polimoda, e infine mi sono trasferita a Bologna dove ho iniziato a lavorare alla Perla come stilista. Continuando la carriera di designer per vent’anni, finché ho ricominciato a dipingere. Nel 2021 ho deciso di lasciare definitivamente la moda per dedicarmi completamente all’arte, e sta andando bene. Benché io sia in questo campo da pochissimo, ho tanti riscontri positivi: vendo, sono contattata da critici e gallerie, mi hanno dato una quotazione che chiaramente non è altissima perché sono neofita, ma avere vent’anni di esperienza in una carriera creativa ha comunque un peso. Insomma, sono felicissima perché sento di star facendo quello che devo fare, di seguire la mia vocazione. Certo, è tutto in divenire, ma mi sento sulla strada giusta.

Come nascono le tue opere?

Dipende. Tra quelle che ho proposto a Cinquerosso Arte ci sono per esempio alcuni studi che hanno come protagonista il mio gatto, Spuma. Quando ho ricominciato a dipingere volevo sviluppare nuove tecniche usando materiali diversi: infatti mischio china e acquerello, uso il sale e altri prodotti per ottenere reazioni particolari. Spuma è una musa che ho sempre sottomano, dal momento che dipingo in casa, nel mio studio. I suoi ritratti fondamentalmente nascono dalla possibilità di avere un soggetto sempre disponibile per le pose. Inoltre si presta molto bene per quello che voglio fare, anche grazie ai suoi colori.

Altre opere, invece, hanno un’impronta astratta.

Sì, dopo il primo periodo ho iniziato a fare tutto un altro tipo di lavoro. Qualcosa di molto più introspettivo sull’evoluzione personale e sull’evoluzione in generale dell’essere umano. È una ricerca abbastanza impegnativa, che va appunto verso l’astrazione. Tra l’altro non lavoro solo come pittrice, perché mi interesso anche di fotografia e video arte, ma il tema è quello: esplorare il quotidiano, capire come l’evoluzione umana passi dalle cose semplici, le più piccole. Lavoro tanto sul contesto della casa e dell’intimità, ovvero tutto ciò che è molto intimo e quotidiano, che di solito non osserviamo perché sembra banale. Come un gatto, appunto.

Quanta parte del tuo lavoro è razionale e quanta parte è istintiva?

Nel mio caso vengono insieme, nel senso che la mia è una pittura realizzata in modo molto istintivo, di getto, che però nasce da un lavoro personale su me stessa, di meditazione, di terapia. Mi interessa anche lo studio della psicologia, e di altre discipline meno scientifiche come l’astrologia: tutto quello che riguarda l’essere umano, insomma. Nelle mie opere c’è quello che ho vissuto, come mi sentivo a livello emotivo mentre lavoravo, luci e ombre del vissuto umano ed emozioni più o meno palpabili.

Ma tutte queste sensazioni e questi stati d’animo vanno a creare qualcosa di più ampio. Non voglio che le mie opere siano troppo personali, perché in realtà mi interessa comunicare: vorrei che ognuno potesse sentirle come proprie. Anche per questo sono pensate per essere componili e personalizzabili, in modo che vadano a creare qualcosa di unico e in divenire.

Come ti trovi con Cinquerosso Arte?

Benissimo. Mi sembra una realtà molto seria, inoltre sono tutti molto carini. È un bel progetto in cui sento tanto entusiasmo. Spero che vada avanti, e per ora le impressioni sono molto positive.

Leggi l’intervista a Owen Gent!

paesaggo opere donna verde

Owen Gent- Amo vedere le mie opere aprirsi a nuova vita

Owen Gent:” amo vedere le sue opere aprirsi a nuova vita”. Illustratore per l’editoria e la comunicazione, Stupisce per la sua capacità di condensare storie e concetti complessi in un’immagine di rara poesia.

Owen, raccontaci la tua storia. Come ti sei avvicinato all’arte?

Ho sempre disegnato e dipinto. Non riesco neppure a ricordare quando ho iniziato, ma la mia carriera ha preso avvio formalmente quando ho intrapreso gli studi in illustrazione alla Falmouth University, in Inghilterra. È stato lì che ho davvero cominciato a elaborare la mia personale voce come pittore e illustratore, e ho creato le prime opere che sentivo veramente mie. Dopo la laurea mi sono messo a dipingere insegne, verniciare barche e altri lavoretti, ma ben presto ho trovato la mia strada come illustratore per l’editoria e la pubblicità. Inoltre lavoro su progetti personali.

Da cosa trai ispirazione?

Sperimento e prendo ispirazione da tante cose; inoltre guardo sempre oltre il mondo dell’arte visiva. Come musicista devo molto alla musica folk e alle storie popolari. Anche la natura mi è di grande ispirazione, soprattutto quando viaggio per fare trekking e nuoto in posti meravigliosi.

Quali tecniche preferisci?

Uso una combinazione di tecniche tradizionali e digitali. Inizio con matite e acquerelli, poi scansiono il dipinto per manipolare il colore, la composizione e la texture tramite Photoshop. Molte delle mie texture sono cose che ho trovato o realizzato a mano, per poi trasporle in digitale. Ho un’enorme libreria di texture, tra cui pezzi di legno, carta invecchiata, lastre per acquaforte usate e perfino materiali organici come le foglie, che poi trasformo in dipinti.

Che cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Credo che sia un ottimo modo perché il mio lavoro possa raggiungere un nuovo pubblico! Mi piace vedere quello che succede quando una mia opera si trova in un nuovo contesto, perché questo le dà respiro e diventa parte della sua storia.

Leggi l’intervista a Sebastiano Sallemi!

pittura analitica geometrica colori pastello

Sebastiano Sallemi – Alla ricerca dell’essenziale

Insegnante di Discipline plastiche e artista, va alla ricerca dell’essenziale. Sebastiano Sallemi vive di forme, colori, luci e suoni. Il suo percorso lo ha portato ad avvicinarsi alla pittura analitica, tra sperimentazioni e progressiva semplificazione.

Raccontaci il tuo percorso artistico.

Ho iniziato ad avvicinarmi alla pittura all’istituto d’arte ed è stato un amore a prima, anche grazie a ottimi professori che mi hanno avviato verso questa forma espressiva. Ho poi continuato incessantemente a disegnare e dipingere, approfondendo anche la conoscenza dei diversi materiali. All’accademia ho iniziato a utilizzare legno, cartoni speciali, vernici e così via. Dopo tre anni di studio del restauro mi sono specializzato in scultura, e oggi sono insegnante di Discipline plastiche, ma il mio rapporto con la pittura non si è mai interrotto. È stato un percorso che ha attraversato diverse fasi. All’inizio, nell’ambito del plastico, mi sono ispirato a grandi artisti come Louise Nevelson, nota per l’uso di materiali di recupero. Poi via via mi sono spostato verso la pittura e in particolare la pittura analitica.

Di che cosa si tratta?

La pittura analitica è una corrente artistica nata in Italia negli anni Sessanta, che ruota intorno allo studio dei materiali e tende a un’estrema semplificazione delle forme. Mi sono così ritrovato a usare il legno, che è un materiale da scultura, in ambito pittorico, e poi via via di sperimentazione in sperimentazione sono arrivato alla mia produzione attuale. L’elemento principale è per me il colore, e tendo a un’estrema semplificazione delle forme, che nei miei dipinti sono soprattutto forme geometriche.

Puoi descriverci il tuo processo creativo?

Il mio processo creativo parte dall’osservazione, e in particolare dall’osservazione della natura, a cui si associano ricordi visivi degli anni passati in giro per l’Italia. A questi ricordi, a questi paesaggi, associo i colori della mia terra (sono nato in Sicilia). A un certo punto ho iniziato ad associare colori, forme e suoni e ho creato una serie di lavori che dal titolo “Rumori bianchi”, in riferimento ai rumori che inducono rilassamento. In queste opere ho pensato di utilizzare il colore allo stesso scopo. Mi piace che i miei quadri diano a chi li guarda un senso di pace.

Stai lavorando a qualche progetto particolare in questo momento?

Sì, oggi sto lavorando su superfici dipinte con colori molto tenui, che fanno pensare a muri screpolati, antichi. Questo progetto mi piace molto perché mi permette di tenere insieme un discorso sulla luce e sul suono aggiungendo anche la dimensione del tempo. Questa idea di creare superfici che possano dare un senso di datato l’associo, fondamentalmente, a tutto ciò che è stato creato dall’uomo e che viene tramandato dall’uomo. 

Come ti trovi con Cinquerosso Arte?

Ho scoperto il sito tramite i social e devo dire che mi ha colpito particolarmente il fatto di poter riprodurre la pittura attraverso stampa ad altissima qualità. Trovo che sia un’idea interessantissima perché – tra le altre cose – permette agli artisti emergenti di lavorare e farsi conoscere. Inoltre lo staff di Cinquerosso Arte è davvero molto serio e professionale.

Leggi l’intervista a Mattia Perru!

pesci colori scuri blu opere

Mattia Perru – Tra il noto e l’ignoto

Le opere di Mattia Perru entrano in profondità nella mente dello spettatore, attivando emozioni e pensieri che sfiorano la superficie dell’inconscio. E intanto l’artista cerca la strada verso l’estrema sintesi.

Mattia, che cos’è l’arte per te?

Ho sempre praticato l’arte in modo disinvolto, senza farne un progetto di vita. Sono un ingegnere meccanico e lavoro appunto in un’azienda manifatturiera; qualcosa di piuttosto distante dalla pittura. Vengo però da una famiglia in cui comunque c’era interesse per l’arte visiva, in particolare da parte di mio padre. Diciamo che, fino a un anno fa, dipingere era per me un’attività rilassante per i ritagli di tempo. Solo da un anno a questa parte ho deciso di farlo in modo continuativo e vorrei che diventasse un’attività più strutturata.

Le tue opere sono piuttosto profonde. C’è molto pensiero dietro?

Sì, quasi sempre c’è una progettualità pregressa. Prima di mettermi a dipingere immagino lo scenario che vorrei rappresentare. Magari non ho già chiaro il soggetto, ma quantomeno so qual è l’atmosfera che vorrei creare. È da lì che parto. A volte, se non riesco a mettermi subito all’opera, prendo appunti. In genere nei miei lavori ci sono ambienti e figure piuttosto riconoscibili, ma vorrei spostarmi piano piano verso una maggiore astrattezza. Non ho ancora il dono della sintesi estrema e quindi non riesco a sentirmi a mio agio in un contesto astratto, ma aspiro a quello. Quando ci provo, mi accorgo di finire nel manierismo e vorrei evitarlo. La sintesi non è semplice perché è molto più facile aggiungere che togliere.

In ogni caso le tue opere sono piuttosto potenti. Ricordano i capolavori del surrealismo.

Prima di tutto grazie. In effetti amo molto Magritte, e in generale apprezzo l’intimità di alcune atmosfere. Come dicevo, nelle mie opere ci sono figure riconoscibili perché mi piace il realismo del dettaglio, ma non sono interessato al realismo della situazione, alla riproduzione pura e semplice della realtà. Mi interessa il dettaglio realistico decontestualizzato. Mi piace appunto creare atmosfere che conciliano l’introspezione. Tendo per esempio ai toni scuri e mi viene istintivo creare opere con ambientazioni crepuscolari e notturne. Forse perché sono le ore in cui c’è più tranquillità, in cui vengono meno le interferenze ed è più facile pensare.

Cosa ti piacerebbe che le persone provassero davanti a una tua opera?

Vorrei che provassero una sensazione di familiarità e allo stesso tempo straniamento. Vorrei che vedessero qualcosa che gli sembra di conoscere ma che non riescono a capire del tutto, come quando si cerca di ricordare un sogno. Mi capita di vedere opere in cui non c’è un dettaglio che mi colpisce, non c’è una situazione più o meno interessante, ma c’è una sensazione di smarrimento: mi sembra di riconoscere qualcosa di familiare che ho dimenticato. Quella sensazione mi piace molto e vorrei che le persone potessero provarla davanti alle mie opere. Vorrei che si sentissero toccare nell’inconscio.

Come ti trovi con Cinquerosso Arte?

Mi piace, perché è tutto gestito in modo molto professionale e curato, anche per quello che riguarda le presentazioni sul sito. Purtroppo non ho potuto partecipare alla reunion dell’anniversario perché ero all’estero, ma spero che ci saranno altre occasioni.  

Scopri il nostro servizio B2B!

hospitality fiera riva dl garda

Cinquerosso Arte espone a Hospitality – Pad. C2 – Stand C04

Un’altra grande manifestazione per Cinquerosso Arte: dal 5 all’8 febbraio 2024 parteciperà con un proprio stand a Hospitality – Il salone dell’accoglienza per promuovere le opere dei suoi artisti emergenti in questa storica fiera B2B dedicata a operatori della ristorazione e dell’hôtellerie, che si tiene ogni anno a Riva del Garda.

Cinquerosso Arte è la prima galleria d’arte dedicata all’interior design; una piattaforma nata per portare l’arte in alberghi, ristoranti, bar e strutture ricettive attraverso la collaborazione con i professionisti dell’arredo.

Affiliato ad AIPI (Associazione Italiana Professionisti Interior Designers), Cinquerosso Arte ha infatti come mission quella di supportare la scelta delle opere d’arte per l’Horeca in fase di progettazione, ed è per questo che ha deciso di investire in questa prestigiosa fiera partecipando come espositore.

Dopo il successo della partecipazione al SIA di Rimini, dove ha avuto un posto d’onore con l’installazione di 12 opere nell’area Piscine Est, Cinquerosso Arte sarà presente a Riva del Garda, Padiglione C2, stand C04, per offrire una panoramica sul suo catalogo di opere d’arte e presentare il suo servizio di consulenza B2B.

Giunto ormai alla 48esima edizione, Hospitality è uno dei più importanti eventi internazionali di questo settore,e nella scorsa edizione ha visto la presenza di 636 espositori e 18.500 visitatori. La partecipazione a Hospitality è quindi una grande opportunità per Cinquerosso Arte, che potrà così entrare in contatto con interior designer, architetti, contractor, proprietari di alberghi e catene alberghiere di tutto il mondo. È proprio al momento della progettazione, infatti, che risulta importantissimo scegliere le opere d’arte che andranno a completare gli arredi, perché questa scelta ha un impatto decisivo sull’identità degli ambienti, sull’atmosfera e – in definitiva – sull’esperienza dell’ospite. Che sia un albergo, un ristorante, un bar o più in generale una struttura dedicata all’accoglienza, le opere d’arte possono fare la differenza, e poter scegliere in un vasto catalogo di opere, stili e tecniche permette di raffinare al massimo la selezione.

Cinquerosso Arte si propone come partner competente e affidabile per i progettisti, capace di portare un importante valore aggiunto ai progetti di arredo, con il proprio servizio B2B, un’ampia selezione di opere, stampe fine art in edizione limitata e progetti personalizzati.

Arrivederci a Riva del Garda!

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Andrea Rocchi – Il mio lavoro è passione, emozione, ricerca

Titolare dello studio omonimo di Interior design e responsabile del settore HoReCa per l’AIPI l’Associazione Italiana Professionisti Interior designers, Andrea Rocchi è l’interlocutore ideale per parlare del rapporto tra architettura e arte nella contemporaneità.

Può parlarci del suo lavoro?

Ho uno studio di architettura di interni specializzato nel settore HoReCa, ovvero progetti per hotel e locali food. Oggi ho una decina di collaboratori e gestiamo quasi esclusivamente progetti per grandi aziende, società per azioni e alberghi partendo dalla categoria quattro stelle a salire. Inoltre sono responsabile nazionale dell’Aipi, l’associazione Italiana Professionisti Interior Designers, per quanto riguarda il settore HoReCa.

Quali sono le particolarità del suo studio?

Ce ne sono almeno due. Oltre ad avere architetti e ingegneri che si occupano delle questioni più tecniche, sono presenti architetti che si occupano di comunicazione e di grafica legata al mondo del food. Ritengo indispensabile curare anche questo aspetto per dare corpo a progetti di valore. Invece di appoggiarmi all’esterno, ho preferito gestire la comunicazione, ormai parte integrante dei nostri progetti, in modo complementare al progetto di interior.

La seconda particolarità, e in questo siamo quasi unici, è che ho sempre una o due persone che si occupano di operare nella ricerca legata al design. Cerchiamo di capire quello che succederà nel futuro, il che significa sia monitorare le evoluzioni tecnologiche (e quindi intravedere quali potrebbero essere le novità che le aziende proporranno) sia mantenere un osservatorio sulle nuove tendenze. Ed è qui che subentra il ruolo dell’arte, perché le tendenze sono legate allo stile, al gusto. Quando parlo di arte non mi riferisco solo all’arte figurativa, ma anche alla musica, al cinema, al teatro: tutte cose che approfondiamo e seguiamo per nutrire le nostre proposte. Cerco di farmi capire con un paragone: noi non facciamo prontomoda, cerchiamo di sfilare in passerella, provando a proporre soluzioni sempre nuove e in linea con i tempi. Con la differenza che la moda, dal punto di vista analitico, ha una cadenza di ricerca stilistica di tipo annuale, mentre nel nostro settore si lavora su ritmi che vanno dai tre ai sei anni.

Un’altra cosa a cui tengo molto è il concetto di formazione continua. Per fare questo lavoro, come del resto per ogni lavoro con una forte componente individuale, servono due cose: una certa predisposizione – un talento diciamo – e un impegno continuo per ampliare le proprie visioni e migliorare le proprie tecniche. Quando effettuo un colloquio alla ricerca di collaboratori per il mio studio non guardo le conoscenze tecniche eccetera, ma guardo passione, etica e obbiettivo della persona, perché sono certo che, se presenti, tutto funzionerà al meglio.

Che cosa le dà motivazione nel suo lavoro?

La mia motivazione è poter dare qualcosa alle persone che vivranno, lavoreranno o si troveranno a frequentare gli ambienti che progetto. La prima cosa che possiamo dare è un’emozione, quella che si ricava di primo impatto. Le ricerche dimostrano che noi ricaviamo una prima impressione in sette secondi, sette secondi che saranno decisivi nel nostro giudizio.

A questa impressione preliminare seguirà poi un giudizio vero e proprio, che ha a che fare con l’esperienza che le persone si ritrovano a vivere e che possiamo riassumere con la parola comfort, ovvero quanto ci fa stare bene e ci emoziona l’ambiente in cui ci troviamo.

Tutte le volte che mi capita di parlare in pubblico sottolineo quanto sia importante l’emozione. Dobbiamo provare emozioni lavorando, per poter emozionare i nostri clienti che magari si commuoveranno vedendo il loro nuovo locale, e per poter emozionare gli ospiti che in quel locale si ritroveranno.

Che ruolo ha l’arte nell’interior design, dal suo punto di vista?

È importantissima, per due motivi. Intanto perché negli hotel e nei locali che arrediamo utilizziamo molte immagini create da artisti – dai quadri ai motivi sulla carta da parati –, ma anche perché l’arte è indispensabile per quel processo di formazione continua di cui parlavo prima. Insisto molto con i miei ragazzi perché vadano a vedere mostre e si tengano aggiornati su quello che accade nel mondo dell’arte, perché è così che si forma il gusto. Che cosa rende gli italiani così diversi dagli altri? Perché siamo così apprezzati nel mondo? Perché nasciamo, cresciamo e viviamo in mezzo all’arte. Le nostre città sono bellissime, studiate da architetti, piene di statue e iconografie legate alle diverse epoche. I nostri occhi, la nostra mente, si abituano alle cose belle: moda, design, arte, architettura, musica, letteratura.

Che cosa pensa di Cinquerosso Arte?

Trovo che sia una bellissima iniziativa, qualcosa che mancava nel nostro settore. Nessuno mai aveva pensato di mettere insieme artisti da proporre agli studi di architettura che lavorano nel campo dell’ospitalità e della ristorazione, offrendo sia qualità sia prezzi compatibili con i budget di un allestimento. Per questo, appena sono venuto a conoscenza di Cinquerosso Arte ho deciso di coinvolgerla nei prossimi progetti.

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Anita Bortolotti – Mondi fantastici per guardare oltre

Anita Bortolotti ha iniziato a disegnare nella sua casa nel bosco, e la sua fonte di ispirazione rimane la natura. Una natura che viene però trasfigurata fino ai limiti dell’astratto, per aprirsi a tutte le interpretazioni possibili.

Anita, raccontaci di te.

Ho sempre avuto la passione per il disegno e l’illustrazione. Ricordo che, da bambina, ancora prima di mettermi a tavola per la colazione già disegnavo. Ho avuto la fortuna di crescere in mezzo alla natura, in una casa nel bosco, e ne ho ricavato tanta ispirazione. In seguito, avendo frequentato un liceo classico ho dedicato davvero poco tempo a questa passione, ma poi sono stata ammessa all’ISIA di Urbino dove ho studiato progettazione grafica e comunicazione visiva.

Studiando mi sono sempre più convinta che la mia strada fosse quella delle illustrazioni, o comunque delle arti visive; ho sperimentato varie tecniche, dalla serigrafia alla tipografia a caratteri mobili alla fotografia, e questo mi ha permesso di ampliare le mie capacità anche nell’ambito dell’illustrazione. Ho cercato, insomma, di arricchirmi attraverso la conoscenza delle diverse forme espressive e dei diversi strumenti, senza più smettere di realizzare illustrazioni. Ora vorrei frequentare un master per specializzarmi ulteriormente.

Come nascono le tue opere?

Anche oggi la mia fonte d’ispirazione primaria resta la natura. Nelle mie opere ricorrono forme naturali, ma a partire dall’ispirazione originale quelle forme e quei colori cambiano e si fanno sempre più astratti. Anche il volto umano mi ispira molto.

Quando non ho un obiettivo preciso da raggiungere posso dare libero sfogo alla mia creatività; allora parto da una visione primaria, nel senso che immagino più o meno quello che voglio realizzare,  e poi lascio molto spazio anche alla gestualità, in modo istintivo. Nel farlo attingo al mio background, cioè alle tantissime immagini che ho avuto e ho sotto gli occhi, ma anche ai miei studi e alle mie letture. Da piccola mi sono stati letti tantissimi libri illustrati, il che mi ha permesso di costruirmi una cultura visiva che ovviamente continua ad ampliarsi. Le mie opere non sono pure rappresentazioni di quello che vedo, ma sono piuttosto un modo per esprimere quello che sento: la mia è un’arte molto emotiva. Ne viene fuori qualcosa che per me ha un significato preciso, ma mi piace che possa essere interpretato liberamente dagli altri.

Ti è capitato di ricevere commenti che ti hanno stupita?

Sì. Per esempio, durante la pandemia avevo realizzato un’illustrazione in cui rappresentavo i collegamenti tra le persone e la loro capacità di adattarsi alla situazione che stavano vivendo; molti invece hanno notato di più l’interdipendenza tra queste persone. È stato interessante verificare come questo significato, che non avevo previsto, sia venuto fuori spontaneamente. Vuol dire che un’opera può produrre tanti spunti di riflessione: è un modo per confrontarsi e far emergere sempre qualcosa di nuovo.

Dunque la tua è un’arte emotiva ma anche riflessiva, qualcosa che induce a pensare.

Lo spero. Sicuramente nasce dalle emozioni che provo e, come dicevo, dal mio background. Ne vengono fuori mondi fantastici, astratti, e mi piace pensare che possano ampliare gli orizzonti di chi guarda.

Come ti trovi con Cinquerosso Arte?

Sono contentissima, intanto perché ho conosciuto Francesca che è una persona stupenda a livello umano e professionale. Abbiamo avuto l’occasione di fare un pranzo tutti insieme, così ci siamo conosciuti e ho avuto la possibilità di sentire parlare di arte da persone di diverse età, con esperienze così differenti tra loro. È una bellissima occasione per crescere, considerando che ho solo 22 anni.

Scopri le opere di Anita Bortolotti!

Giovanni Mercatelli – L’avventura dell’arte

Malgrado la giovane età, Giovanni ha le idee chiare sul suo futuro e vorrebbe dedicare la sua vita all’arte. Le sue opere riflettono una personalità energica, poliedrica e appassionata, che lo ha già portato in giro per il mondo.

Giovanni, raccontaci di te e del tuo rapporto con l’arte.

Il mio rapporto con l’arte inizia in un’epoca di cui non ho memoria. Mia madre mi racconta che tornavo a casa dall’asilo tutto sporco perché mi rotolavo nei colori, su tele enormi. E anche a casa ero circondato da materiali artistici perché mia madre realizzava (e realizza tutt’ora) bellissime cornici in cartapesta; inoltre è un’interior designer ed è sua abitudine visitare mercatini e portare a casa bellissimi oggetti che per me sono sempre stati fonte di ispirazione. Mio padre invece dipinge con gli acquarelli; la sua particolarità è che dipinge sempre lo stesso soggetto, un panorama marino, forse perché ha nostalgia dei tempi in cui viveva ai Caraibi. Così ho sempre respirato arte e ho continuato a disegnare anche da adolescente, ma questa passione ha iniziato a prendere una forma definita quando – a 19 anni – mi sono trasferito in Olanda per studiare.

Eri andato a studiare arte?

No, design industriale del prodotto. Purtroppo non mi sono trovato bene: la città, il clima, non mi piacevano e sono stati tre anni piuttosto duri durante i quali mi sfogavo appunto disegnando. L’arte, quindi, è arrivata come via di salvezza, come sfogo.

I disegni di quel periodo erano molto scuri, molto viscerali. Già allora emergevano i richiami al mondo del fumetto, perché l’altro sistema che avevo trovato per consolarmi era leggere Hugo Pratt. Corto Maltese è per me fonte di grande ispirazione: sogno una vita avventurosa come la sua e proprio per questo dopo la laurea triennale sono andato a vivere in un’isola dall’altra parte del mondo: a Key West.

L’isola di Hemingway.

Esatto. È il punto più a sud degli Stati Uniti d’America, nello stato della Florida, di fronte a Cuba. Ero ospite di un’amica di famiglia che ha una galleria d’arte dove espone tutti gli artisti locali. Mi sono ritrovato quindi circondato da opere d’arte che straripavano di colori. Per me era una novità assoluta, perché in quel periodo disegnavo solo in bianco e nero con la penna a china. Sono rimasto lì circa un anno. Mi mantenevo lavorando come muratore e intanto scoprivo gli acquarelli, portando il colore nei miei disegni. Il mio periodo a Key West è stato molto solitario, perché mi sono trovato lì nel periodo della pandemia e sull’isola vivono solo anziani, ma è stato anche molto sereno.

E dopo?

Sono tornato in Italia per frequentare un master sulla sostenibilità, che ho poi terminato in Olanda. A quel punto però ho deciso di dedicarmi all’arte con maggiore serietà e ho cominciato a ritagliarmi del tempo. Disegnavo e disegnavo, e nella mia mente si andava chiarendo il proposito di “fare le cose in grande”. Ho preso quindi la decisione che, una volta terminato il master, sarei tornato a casa e avrei iniziato a dipingere con più assiduità, anche per vedere se le mie opere potevano piacere a qualcuno. Penso che sia la mia strada e vorrei seguirla fino in fondo. Vorrei mantenermi con l’arte e avere una vita avventurosa, come dicevo.

Come nascono le tue opere?

Comincio a distinguere due processi: uno è quello istintivo, per cui disegno senza pensare; il secondo invece parte da un’idea, da qualcosa che vedo intorno a me, da un ricordo, un oggetto, una lettura. Mi accorgo inoltre di avere dei colori preferiti che uso spesso: rosa di Venezia, il giallo, il verde laguna. Tra le mie fonti di ispirazione c’è il regista Wes Anderson e mi accorgo di usare una palette molto simile alla sua.

Come ti trovi con Cinquerosso Arte?

Molto bene! Mi sono divertito tantissimo all’evento del 5 maggio scorso, e sono stato felice di conoscere gli artisti. Inoltre è stata la prima volta che ho visto esposte le mie opere e ho potuto notare come reagivano le persone nel guardarle. Sto imparando tanto grazie a Cinquerosso Arte.

Scopri le opere di Giovanni Mercatelli!

Polina Stepanova – L’alchemica ricerca di sé

Con la sua arte gestuale, basata su imprevedibili traiettorie e imprecise alchimie, Polina imita la forza generatrice della natura. Ama l’idea di un’arte “aperta”, che possa giungere ovunque.

Polina, raccontaci il tuo percorso nell’arte.

Tutto è iniziato abbastanza presto, in famiglia. Mio padre studiava arte e mia madre studiava moda a San Pietroburgo, dove si sono incontrati. Sono quindi cresciuta in questo mondo e ho frequentato una scuola di moda e design, dove ho potuto praticare anche musica e altre discipline. Insomma, avevo davanti a me tante possibilità. Da piccola volevo diventare astronauta, e oggi mi ritrovo a fare quadri ispirati all’astrologia e alla natura: la vita prende strane strade.

Ho lasciato San Pietroburgo per andare in Belgio, a frequentare l’Accademia di belle arti di Anversa,  e ho cominciato a studiare moda. Mi sono laureata, ma soprattutto ho vissuto quattro anni abbastanza intensi, dove mi perdevo e mi cercavo in continuazione: avevo bisogno di capirmi per decidere quale potesse essere il mio futuro, da questo l’alchemica ricerca di sé. Anche in questo caso avevo la possibilità di conoscere discipline collegate all’arte, che mi aiutavano anche ad esprimermi dal punto di vista emotivo, e non solo tecnico. In seguito ho vissuto a Londra e a Parigi, e circa dieci anni fa mi sono trasferita in Italia per una consulenza, pensando di fermarmi per un breve periodo: invece sono ancora qua e ho due bimbi. Lavoro come consulente per la moda, e mi occupo di previsioni sulle nuove tendenze collegando moda, sociologia e antropologia; inoltre insegno al Polimoda di Firenze.

Hai sempre continuato a dipingere, al di là di questo lavoro?

In parte sì. Facevo consulenze per la stampa, realizzavo illustrazioni per clienti privati, ma solo un anno fa ho deciso di dare più spazio all’arte. Forse il nome artista mi suonava un po’ troppo forte e non mi definivo mai così: un anno fa, invece, ho deciso di cominciare questo percorso, raccontandolo di più, contattando più persone. Così ho incontrato Francesca e Cinquerosso Arte, e ho conosciuto altre gallerie.

Da cosa nascono le tue opere?

Sono molto ispirata dalla natura, ma da natura diciamo “pagana”, come forza elementale e genitrice. Mi piace pensare alla natura di quando non c’erano ancora esseri umani, che poi abbiamo tradotto come energia: il caos, il buio, il tramonto, il sole, la nascita. La natura, insomma, nelle sue manifestazioni più primordiali. E per questo mi ispiro spesso alla mitologia e alle religioni pagane. È interessante notare i punti di contatto con la scienza. Prendiamo l’elettricità, per esempio. Siamo abituati a pensare all’elettricità come a qualcosa di tecnico, un prodotto della conoscenza, invece questa forza era lì all’inizio dei tempi: è  in ogni atomo, in ogni cellula. Ho realizzato una serie di dipinti che si chiama Electricity ed Electric Sky, che traggono ispirazione proprio da questa riflessione.

Un’altra serie si intitola First Beings, i primi esseri, che sono proprio le idee del vento, dell’aria, i primi elementi. Altre serie sono collegate ai segni zodiacali, al loro rapporto con gli elementi, all’energia più mutabile e a quella più stabile, l’energia della distruzione, del fuoco, oppure dell’acqua, del cambiamento.

Raccontaci la tua tecnica, che è piuttosto particolare.

Mi ritrovo molto nella tecnica chiamata Gesture Painting, la pittura del gesto. Sto lavorando con inchiostri a base di resine naturali, estratte dagli insetti, che sono idrorepellenti e non si diluiscono: in questo modo si creano forme abbastanza inaspettate. Inoltre io non tocco la carta: verso l’inchiostro e guido la traiettoria di caduta senza riuscire a prevedere del tutto quello che accadrà.

In questo modo la materia si trasforma, come si trasforma anche la natura: è l’ignoto che mi piace. Mi sento libera dal bisogno del controllo. Anche quando un cliente mi richiede un’opera, può esprimere preferenze per un colore o una certa forma, ma non ha certezze.

Cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Sono stata molto felice di essere stata contattata da Francesca. Mi è piaciuta molto questa visione di un’arte coinvolgente, aperta a tutti. Lavorare con le riproduzioni ad altissima qualità è qualcosa di simile a quello che sta accadendo nel mondo della moda: c’è il pezzo unico e poi c’è il pronto moda. Quello che fa Francesca è “pronto arte”, e lo trovo molto interessante.

Mi sento in sintonia anche con il modo in cui vengono selezionati gli artisti, non in base al curriculum ma in base a passione, talento e ricerca: c’è chi ha seguito un percorso accademico, chi ha sempre lavorato con gallerie, accanto a chi ha appena iniziato il suo percorso. Anche la possibilità di creare una comunità di artisti mi piace moltissimo.

Scopri le opere di Polina Stepanova!

Giuseppe Barilaro crea per distruggere. Intervista dell'artista

Giuseppe Barilaro – Voglio lasciare tracce di vissuto

Giuseppe Barilaro crea per distruggere, produce forme che poi lacera, perché quello che gli preme è esprimere il qui e ora dell’azione artistica. E si dice perfettamente felice quando un suo quadro viene lungamente discusso.

Giuseppe, qual è stato il tuo percorso fin qui?

Ho studiato all’Accademia di Belle arti di Catanzaro e mi sono laureato in Decorazione e Decorazione per arti sacre. Il seguito è arrivato in modo del tutto spontaneo; ho iniziato a dipingere in modo accademico, ma ben presto ho perso interesse e sono passato a studiare psicologia. Più tardi ho cominciato a frequentare gli obitori di Catanzaro assistendo a sessioni mediche, e lì mi sono innamorato del corpo umano con le sue patologie.

A un certo punto ho cercato di riversare tutto questo nell’arte. Parto dalle tecniche classiche, ovvero pittura a olio, acrilico, tempera, e soprattutto la composizione ortodossa, che comprende colore e forma, e dipingo in modo iperreale, dopodiché distruggo letteralmente il quadro con la combustione e vado a lacerare tutte le forme che avevo creato in precedenza.

Voglio che la pittura emerga da sola, in quello che rimane dopo la combustione. A questa pratica ho dato il nome di una patologia, la prosopagnosia:  l’individuo non riconosce il volto del soggetto e lo vede in modo diverso, oscurato, frammentato.

Come mai questa scelta?

Nella mia personale filosofia, il volto è l’unica parte vergine dell’essere umano. In una persona, il volto è ciò che è leggibile da tutti ed è sempre soggetto a giudizio.

Dopo aver distrutto il volto, utilizzo una “lava rossa”, il colore viene versato sul supporto e con la fiamma viene letteralmente bruciato, successivamente viene lacerato con la lama di un taglierino. La mia è un’azione artistica che ricorda quello che avviene in sala operatoria. Bruciando il colore, lo faccio addensare e poi lo taglio con il bisturi. Questa pelle rossa lacerata è un’esplosione da cui emergono altri colori.

Queste lacerazioni rimandano anche alla terra, ai solchi che vengono tracciati per le coltivazioni, tanto che ho creato una collezione di 15 quadri che ho chiamato “Tra l’aratro e la terra incolta”.

Che cosa ti spinge a dipingere?

Voglio lasciare tracce tangibili, nette e cattive. Sono convinto che l’arte debba cambiare alcuni codici. Le mie lacerazioni sono tracce di vissuto, che tengono conto di quello che succede nel mondo: quello che vedo è un’immensa distruzione, un po’ alla Schopenhauer. Mi affascina l’idea che nelle mie opere rimanga ben poco del soggetto. Che ci sia un matrimonio tra il soggetto stesso e l’atto distruttivo, qualcosa che – nella nicchia di un quadro – testimoni il fatto che “lì” è avvenuto qualcosa. Come per i solchi di cui parlavo prima, in cui c’è uno sposalizio e la terra attende l’acqua per germogliare.

L’arte per me deve abbandonare la retorica, non deve dire nulla, ma trovare il tempo esatto nel luogo giusto.

Normalmente si parla degli artisti come persone creative. Tu ti definisci più creativo o distruttivo?

Devo dire che a me non piacciono molto le parole “artista” e “creatività”. Preferisco essere in quel luogo con quell’oggetto, per qualcosa che sta per avvenire. Potrei definirmi alchimista, anche se è una parola piuttosto abusata. Se proprio devo definirmi, preferisco dire che sono un pittore. Quello che mi dà soddisfazione è sapere che un mio quadro ha trovato la giusta collocazione, ha trovato casa, magari in un contesto che non avevo previsto. Questo mi affascina dell’arte.

Quindi come immagini una tua opera in un’abitazione o in un albergo, per esempio?

È proprio quello che mi piace, perché vorrei che i miei quadri fossero difesi e discussi. Vorrei che le persone non si limitassero a guardarli. Per questo preferisco che vengano comprati da chi ha poche potenzialità economiche. Se un mio quadro viene acquistato da un collezionista finirà insieme ad altri quadri come oggetto da collezione, appunto. Invece a me affascina l’idea che un mio quadro sia lì davanti agli occhi mentre le persone sono a tavola, e diventi oggetto di discussione. Vorrei che portasse emozioni, sentimenti e quindi anche bisogno di parlare e condividere. In tutto questo, l’artista deve rimanere dietro le quinte, lasciando la scena al quadro stesso.

Che cosa pensi di Cinquerosso Arte?

È una meraviglia! Sono veramente innamorato delle persone che fanno parte del progetto e della loro produzione. E poi il clima che si respira è di grande affetto: quando sono stato a Bologna ho fatto il pieno di sorrisi.

Scopri le opere di Giuseppe Barilaro!

opere in tecnica mista collage su sfondo colorato

Erika Garbin – L’arte è per me terapeutica

Erika è riuscita a coniugare due grandi passioni – l’arte e l’amore per gli altri – occupandosi di arteterapia. Il suo è un mondo complesso e profondo, perché la sua arte indaga e mette in discussione gli schemi mentali in cui tutti in qualche misura rischiamo di restare intrappolati.

Erika, parlaci della tua storia.

Il mio battesimo nel mondo dell’arte risale a quando ero piccolissima. Avevo infatti uno zio che dipingeva e mi portava spesso con sé. Mi piaceva tantissimo andare in giro con lui e i suoi acquarelli per vederlo dipingere. Per questo ho sempre avuto le idee chiare: volevo frequentare il liceo artistico e poi l’Accademia di belle arti e così è stato. Purtroppo non è facile mantenersi con questo tipo di formazione, ma ho seguito un’altra passione e ho iniziato a lavorare nel sociale. Ho trovato lavoro in una comunità psichiatrica come operatore, mi hanno dato la possibilità di fare attività di pittura e così ho iniziato a studiare arteterapia. Da allora ho sempre associato l’arte alla disabilità e alla psichiatria, in tutti i settori e con persone di ogni età. Attualmente lavoro in un Centro medico polifunzionale e tengo laboratori creativi in una piccola scuola frequentata da ragazzi con disabilità importanti, tra cui l’autismo.

Che cosa accade nella vita di questi ragazzi quando incontrano l’arte?

Il primo beneficio è l’effetto rilassante. In genere i ragazzi hanno bisogno di trovare un ambiente che li tranquillizzi, dove possano concentrarsi. Riuscire a far stare un ragazzo in un’aula, diminuire i vocalizzi, evitare che gironzoli a vuoto e ridurre l’aggressività sono risultati molto importanti. Quando dipingono si rilassano, mentalmente e fisicamente. Per me i loro disegni sono vere e proprie opere d’arte e tante volte prendo spunto da quello che fanno. Le persone neurodivergenti hanno una libertà espressiva che noi non abbiamo, e questo può essere fonte di ispirazione. Per me è stato importante confrontarmi con loro, perché quando ho ripreso a “produrre” arte, dopo l’Accademia, avevo un po’ perso la mano con il disegno: così ho iniziato con il collage, una tecnica che uso molto con i miei ragazzi e che ho via via approfondito per le mie opere.

Ci sono temi ricorrenti nelle tue opere?

Da un po’ di anni lavoro sul concetto di “femminile”, in modo un po’ provocatorio. Nei collage, per esempio, ricorrono spesso queste figure di donne un po’ patinate e stereotipate che arrivano da riviste degli anni Sessanta, dove si spiegava come stirare, come cucinare eccetera. Da lì ho proseguito stampando su cartamodelli e realizzando lavori con ago e filo: mi sono messa insomma a rammendare immagini e oggetti.

Che cosa c’è dietro questo tuo rammendare?

Ecco, non mi è stato subito chiaro ma credo che sia un po’ come riparare una ferita. Questa dimensione familiare stereotipata, dove c’è la donna con tutti i suoi compiti ben definiti e ripetitivi, è per me qualcosa che richiede un intervento. Anche questo per me è terapeutico. L’opera la chiamo “prodotto”, perché è la testimonianza di qualcosa che è accaduto, di un atto che ha avuto un effetto su di me e che ha lasciato bei segni. 

Cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Credo che sia una bella iniziativa. Ho visto un’attenzione, una cura particolare e mi dispiace di poter partecipare poco ai diversi incontri tra i collaboratori. Comunque ho già pronti dei lavori che vorrei inviare, per cui spero che presto ne vedrete di nuovi.

Scopri le opere di Erika Garbin!

Rocco Casaluci – Il mio è un allenamento al guardare

Figlio e fratello di fotografi, Rocco Casaluci ha sempre vissuto tra pellicole, obiettivi e carta fotografica, ma anche tra palcoscenici e stradine di campagna, con lo sguardo limpido e acuto dell’osservatore.

Rocco, parlaci di te.

Sono nato in Salento e, dopo una parentesi veronese durante la quale ho lavorato come apprendista nello studio di uno dei miei fratelli, ho vissuto gran parte della mia vita a Bologna. La mia formazione tecnica è poi proseguita lavorando per diverse gallerie d’arte, nella riproduzione di opere e creazione di cataloghi. Parallelamente ho sempre portato avanti una grande passione per il teatro, e per gli strani casi della vita sono riuscito a conciliare le due cose diventando fotografo ufficiale del Teatro Comunale di Bologna, dal 2007 sino al 2021.

Tra tutti gli aspetti del lavoro di un fotografo, quello che ho sempre amato di più è il momento della stampa. Come sappiamo, per tutto il Novecento e fino all’avvento del digitale la figura del fotografo era molto diversa da quella di oggi: si lavorava in camera oscura e ci volevano strumenti, materiali e capacità che non erano alla portata di tutti. 

La tua professione ha influito sul tuo sentire di artista?

Sì, il teatro mi ha permesso di “unire i puntini”. La fotografia di scena non è interpretativa, nel senso che bisogna rispettare il lavoro di tutti e valorizzare lo spirito dell’opera, ed è molto tecnica. Questo mi ha portato ad assumere il ruolo di osservatore privilegiato, perché lavoravo durante le prove, a stretto contatto con registi e attori. Inoltre, questa professione mi ha addestrato all’attesa. Assistevo alla nascita dello spettacolo, e si trattava proprio di aspettare il momento giusto, quello decisivo. Del resto io venivo dalla scuola dell’analogico, che era già fatta di tempi lenti e di attese: il tempo dello scatto, quello dello sviluppo, della selezione, della stampa ed eventualmente del ritocco. Come dice l’etimologia stessa, la fotografia è un descrivere con la luce.

E oggi cos’è?

Oggi tutto avviene a ritmo di corsa, in una sorta di bulimia di immagini. A me invece piace la fotografia che permette di osservare i dettagli. In una scena, per esempio, non mi interessa solo il focus principale, ma anche quello che c’è intorno. Le tende di pizzo di Sangallo, il signore in un angolo che legge il giornale, una fotografia che – come la vita – è più bella se è presente nel qui e ora.

La tua fotografia è cambiata nel tempo?

Sì, è andata asciugandosi fino ad arrivare al progetto che ho presentato a Cinquerosso Arte: Sponte plantis. Come dicevo, ho sempre amato il bianco e nero e in questo progetto lo applico all’estremo, sottraendo colore a fiori e piante, disposte su uno sfondo neutro. Quello che cerco di fare con la mia fotografia è un allenamento al guardare, non solo al vedere; qualcosa per cui bisogna andare oltre l’occhio come organo della vista ma passare all’organo della mente. Utilizzo un obiettivo macro per cogliere ogni dettaglio e indurre lo spettatore a soffermarsi, ad avvicinarsi per osservare da vicino. Scelgo piante spontanee, umili, che passano inosservate anche per effetto della velocità con cui ci muoviamo, e le tratto come se fossero persone, come se facessi un ritratto della pianta. Lavoro molto in studio, ma ci sono casi in cui invece è meglio andare sul campo per poter catturare un particolare momento, per esempio la schiusa dei petali. La natura è veramente incredibile, con le sue geometrie e le sue architetture, e non finisce mai di sorprendere.

Come ti trovi nel team di Cinquerosso Arte?

Sono contento e grato di essere stato coinvolto, perché condivido molto l’idea di un’arte alla portata di tutti gli amanti del bello, non solo di chi è più facoltoso. Io stesso amo trasformare le mie opere in piccoli oggetti da regalare alle persone a cui tengo. L’arte così è un gesto d’amore.

Scopri le opere di Rocco Casaluci!

Cinquerosso Arte al SIA, Salone internazionale dell’accoglienza Pad D5, Stand 085

Dall’11 al 13 ottobre, Cinquerosso Arte sarà presente con un proprio stand al SIA Hospitality Design di Rimini, una delle principali vetrine italiane per il settore alberghiero e in generale per le strutture ricettive. Il SIA Hospitality Design è entrato a far parte di InOut|The Contract Community, e si svolgerà in contemporanea con TTG Travel Experience. Sarà quindi un enorme evento dedicato a ospitalità e turismo, settori in cui l’Italia ha tanto da offrire.

Cinquerosso Arte esporrà la sua ampia selezione di opere d’arte portandola all’attenzione di architetti, contractor, proprietari di hotel e decision maker di strutture ricettive, ovvero a tutti coloro che possono essere interessati a migliorare l’esperienza dell’ospite con l’arte di qualità.

I principali interlocutori di Cinquerosso Arte sono infatti gli operatori del mondo dell’hôtellerie: è in questo ambito, del resto, che risulta utile poter scegliere tra tante opere d’arte – con diversi stili, tecniche, gamme cromatiche, formati – potendo contare sempre sul valore intrinseco dell’opera e sulla grande cura della stampa fine art, nel rispetto dei budget.

Il SIA, Salone internazionale dell’accoglienza, è una delle più importanti fiere dedicate ad alberghi, campeggi e glamping del nostro paese, dove convergono ogni anno operatori del settore di tutto il mondo. L’edizione 2023 sarà particolarmente ricca e permetterà di esplorare ogni aspetto dell’ospitalità, spaziando dall’interior design alle applicazioni per self check, dai servizi per gli alberghi alla fornitura di prodotti, dalle tecnologie audio e video all’arredo outdoor.

Per Cinquerosso Arte, nato nella primavera del 2022, si tratta della prima presenza ufficiale a questo prestigioso evento che attrae professionalità e visitatori da ogni continente. Presso lo stand 085, Pad D5, si potrà visionare una carrellata degli oltre 40 artisti che collaborano con la piattaforma di e-commerce, e si avrà l’occasione di approfondire dal vivo il servizio di consulenza B2B.

Arrivederci a Rimini!

I 5 stili di interior design più utilizzati nei progetti di arredo

Quali sono i 5 stili di interior design più utilizzati dai professionisti dell’arredamento? Può essere difficile trovare una risposta a questa domanda, perché oggi esiste una grande varietà di stili, e soprattutto c’è la tendenza a combinare elementi dell’uno e dell’altro per dare agli ambienti una maggiore personalizzazione e un’identità più definita.

Esistono comunque stili di arredamento che ritroviamo con sempre maggiore frequenza non solo nelle abitazioni private ma anche in alberghi, ristoranti, bar e strutture ricettive in generale.

In questo breve excursus tra i 5 stili di interior design più utilizzati non possiamo che partire dallo stile classico. Intramontabile, questo stile si addice ad abitazioni spaziose ed eleganti come le ville, o ad alberghi dall’impronta europea. Qui prevalgono le linee curve e barocche, apparentemente senza spigoli, i colori scuri e l’illuminazione soffusa; frequenti, nell’ultimo periodo, sono anche i richiami all’art déco con la sua allure modernista. Troviamo tappeti e tendaggi importanti, sedie e poltroncine imbottite. I mobili sono in legno massiccio, i lampadari di cristallo o comunque d’impatto. Lo stile classico contempla l’uso del marmo, sia per i pavimenti sia per dettagli. L’atmosfera è morbida e calda, rassicurante, intensa.

Tra gli stili di interior design più apprezzati ritroviamo senz’altro lo stile contemporaneo. Caratterizzato da linee rette e pulite, si addice ad appartamenti di qualsiasi metratura e attici, preferibilmente luminosi. È uno stile minimale, con mobili funzionali e dal design pensato per garantire ergonomia e integrazione tecnologica (benvenuta la domotica in ambienti di questo tipo). I complementi d’arredo sono pochi, perché prevalgono gli spazi vuoti. Vengono utilizzati tutti i tipi di materiali, dal legno alla pietra, dall’acciaio al vetro, purché dosati in modo da bilanciarsi perfettamente senza che uno prevalga sull’altro. I colori sono generalmente neutri, come il bianco e il grigio, a cui fanno da contrappunto contrasti forti. L’atmosfera è confortevole, ed esprime eleganza e sobrietà.

Uno stile che si sta sempre più imponendo anche nelle città italiane è l’industrial. Nato nella New York degli anni Cinquanta, dal recupero di vecchie strutture industriali, oggi viene tipicamente applicato quando si deve arredare uno spazio originariamente non pensato come abitazione. Ecco, quindi, open space con grandi vetrate o finestre alte, colonne, travature, tubi, volumi che si estendono verso l’alto perfetti per essere soppalcati. La palette è scura, con forti contrasti caldo freddo dati dall’utilizzo di materiali come metallo, legno, cemento, mattone. I mobili e i complementi di arredo sono solitamente vintage o di recupero. L’illuminazione prevede un misto di luce artificiale e naturale. L’atmosfera è intrigante, urbana, adatta alla convivialità.

Uno stile di arredamento intramontabile è quello che possiamo definire rustico. Adatto a case di campagna, o comunque nel verde, questo stile prevedere tanto legno, anche colorato, ferro battuto, carta da parati, tessuti di lino e cotone, ricami, e molte piante d’appartamento. La palette è chiara, con tinte pastello. I mobili possono essere più o meno ricercati, ma spesso sono shabby chic. L’arredamento, soprattutto quando si tratta di bar o ristoranti, è talvolta “scombinato”. Nelle abitazioni ha grande importanza la cucina, luogo deputato all’incontro e alla condivisione. L’atmosfera è romantica, con un sapore di famiglia e di infanzia.

Stile adatto a qualunque ambiente, che sia di città o di campagna, abitazione privata o luogo di passaggio, è sicuramente il boho chic. È uno stile di interior design eclettico, che si caratterizza per un richiamo all’epoca bohémien da cui prende il nome. Creativo, divertente, esagerato, prevede un arredamento a prima vista incoerente, ma che non risulta confusionario. Troviamo legno, vimini, stoffe, mobili di recupero, echi coloniali ed etnici, elementi vintage anni ’50 e’ 60, e soprattutto tanto colore. L’atmosfera è vivace e accogliente come un salotto disordinato perché vissuto in allegria.

Naturalmente, per ognuno di questi stili di interior design è essenziale scegliere opere d’arte che siano in perfetta sintonia con l’insieme. Per questo basta rivolgersi al servizio di consulenza di Cinquerosso Arte che, nella grande varietà offerta dagli artisti selezionati, saprà individuare l’opera perfetta per il progetto.

Giulio Brandelli un'arte spontanea

Giulio Brandelli – Disegno gli spettatori invisibili della mia vita

Musicista e creativo a tutto tondo, Giulio richiama nelle sue opere gli amici immaginari dell’infanzia per averli sempre accanto. La sua è un’arte spontanea e ardente, gioiosa ma anche profonda.

Parlaci della tua formazione artistica.

Ho un talento innato per il disegno, che è venuto fuori fin da piccolissimo. Capitava spesso che, alle elementari, i maestri pensassero che i miei disegni in realtà fossero fatti da un adulto. Però non ho avuto una vera e propria formazione perché i miei genitori hanno preferito per me altre strade. Ho frequentato ragioneria invece che il liceo artistico, ma per compensare e nutrire il mio lato creativo ho studiato tromba al conservatorio. Sono anche musicista, quindi, e suono tuttora. Con il covid ho ripreso a dipingere con più assiduità, cambiando radicalmente stile. Prima il mio era un disegno realistico e i miei soggetti erano corpi di donne, oppure volti. A un certo punto ho iniziato a sentire come troppo restrittive le regole del ritratto e del realismo in generale. Allora sono tornato alle origini, a quello che amavo fare da bambino.

Le tue bizzarre creature…

Già da piccolo combinavo corpi umani e animali per creare figure antropomorfe, e ho ripreso a fare qualcosa di simile. Come dice una mia amica, sono gli amici immaginari dell’infanzia che abitavano sotto il letto, e adesso li ho tirati fuori. Li chiamo “disegnini” o “mostrini”, e all’apparenza sembrano solo buffe creature. In realtà dietro c’è qualcosa di più profondo: sono gli spettatori invisibili della mia vita, osservano in silenzio e divertiti quello che faccio e che mi accade. Ho appena vissuto un’esperienza molto difficile in famiglia, un’esperienza che mi ha fatto provare tanta paura e mi ha portato a riflettere su che cosa sia davvero importante nella vita. Nelle mie opere c’è anche questo.

Quali tecniche usi?

Diverse tecniche, mi piace cambiare e ho una buona manualità, per cui riesco a fare tante cose, che sia cucinare o scolpire il legno o fare l’uncinetto. All’inizio erano solo acquerelli, poi sono passato a una tecnica mista. Uso fogli di carta acquerellabile molto spessi, su cui preparo una base mischiando acquerelli, inchiostri, pennarelli, penne, matite. Di solito parto da un’idea, un concetto (per esempio, la sensazione di non avere mai abbastanza tempo, che è qualcosa che sperimentiamo tutti), a quel punto mi vengono in mente le figure e mi lascio guidare dalle loro forme.

Se dovessi associare la tua arte a un genere musicale, quale sarebbe?

Io suono in una street band, e credo che rispecchi perfettamente la mia arte. Dentro c’è un po’ di astrattismo, un po’ di cubismo, c’è lo stile dei murales… Qualcosa di vitale e comunicativo.

Che cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Ho aderito subito con grande entusiasmo perché credo abbia molto potenziale. Mi è piaciuto tantissimo incontrare gli altri artisti, anche perché è qualcosa che non accade di frequente. Da musicista ci sono molte più occasioni per conoscere e confrontarsi, mentre il mondo dell’arte è un po’ più chiuso e ci sono meno possibilità di contatto. In Cinquerosso Arte ho visto un gruppo affiatato e ben impostato, e mi auguro davvero che questo progetto possa portare cose belle a tutti. Sono persone speciali.

Scopri le opere di Giulio Brandelli!

intervista Paolo Tamburini

Paolo Tamburini – La fotografia mi permette di guardare oltre

Ironiche, spiazzanti, leggere ma non fatue, le fotografie di Paolo Tamburini nascono da pensiero e maestria e disegnano realtà sovrapposte.

Limpidi strati di luminose rivelazioni.

Come sei arrivato alla fotografia?

La fotografia è stata la mia seconda, grande, passione artistica. Sono figlio di una cantante e ho studiato violoncello fin da bambino, ma non ho potuto diplomarmi al conservatorio a causa di una tendinite. I primi ricordi che riguardano la fotografia risalgono all’infanzia:  mio padre (che era un appassionato) “costringeva” me e le mie sorelle a guardare le diapositive dei nostri viaggi di famiglia. Intorno ai 16 anni ho iniziato a esplorare questo mondo insieme a un amico. Di nascosto prendevo la Canon 35 mm di mio padre, di cui era gelosissimo, e andavo con il mio amico a scattare foto in campagna e nelle colonie abbandonate. Il salto al digitale è avvenuto ai tempi dell’università. Parallelamente agli studi in lettere, ho frequentato corsi di fotografia, anche in camera oscura, e seminari con professionisti del settore. È In quel periodo che hanno cominciato a chiedermi fotografie su commissione.

Dopo la laurea ho iniziato a insegnare, ma durante la pandemia ho abbandonato questa carriera e mi sono dedicato interamente alla fotografia. Ora collaboro con un’agenzia di comunicazione specializzata nel settore dell’interior design.

A che cosa stai lavorando in questo periodo?

Per il mio ultimo lavoro mi sono lasciato guidare dal richiamo delle atmosfere notturne. Il progetto, che inizialmente avevo chiamato “Notti magiche”, è un’esplorazione delle luci che popolano la notte della mia città: scatti urbani, vedute, angoli di zone residenziali. Poi è emersa una seconda urgenza: ho voluto provare a rappresentare la mia città e i suoi dintorni come una colonia su un lontano pianeta abbandonato. È nato così “Planet Rimini”, in cui immagino un papà e una figlia a girovagare per ambienti e scenari alieni.

Dunque non ti limiti a fotografare la realtà, ma la trasformi.

In un certo senso sì. Mi piace questo approccio alla fotografia: lo considero un allenamento per rinnovare di continuo il mio modo di guardare. La vita non si esaurisce con quello che vediamo, ma c’è tanto che non riusciamo a percepire. Le arti, come la fotografia, riescono talvolta a svelare questo “altro” che c’è ma non si nota a prima vista. Per esempio, nell’estate del 2021 ho lavorato a una serie di foto che ho chiamato “Aestatica”, di cui sono protagonisti materassini gonfiabili a forma di animali o di frutta, in ambientazioni “realistiche”. È stato un inno alla fantasia e allo sguardo dei bambini, che vedono quegli oggetti come copie della realtà e allo stesso tempo come reali.

In te c’è chiaramente una vena ironica.

Sì, è una scelta. Nella fotografia contemporanea si vede tanto disagio, tanta fatica, tanta solitudine e narcisismo. È la nostra realtà ed è giusto rappresentarla e interpretarla artisticamente. Io cerco di non “crogiolarmi” nel disagio; cerco di porre l’accento sul positivo che vedo, vorrei non fornire ulteriori casse di risonanza al disagio.

Tu sei anche un musicista. Vedi legami tra musica e fotografia?

Sì, molti. In particolare c’è una parola comune: composizione. La trovo un bel ponte tra queste due forme di espressione artistica.

Si crea una composizione a partire da qualcosa che si ha in mente (quello che in musica è il tema), dopodiché si fanno arrangiamenti mettendo in campo la propria cultura, i propri riferimenti consci o inconsci. Preparare un set, soprattutto per gli still life, è un’operazione simile agli arrangiamenti musicali che servono per andare a comporre l’insieme. Poi però ci sono situazioni più “rischiose”, come nel reportage, in cui la composizione la si deve tirare fuori all’istante: si diventa tutti un po’ come jazzisti che improvvisano melodie sul momento.

Cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Mi ha colpito molto il desiderio di Francesca Fazioli di partire dalla bontà dei rapporti tra di noi. Ho avuto modo di conoscere tutti i componenti del gruppo, in diverse occasioni, e si vede chiaramente che Francesca ha a cuore la costruzione di una squadra, il fatto che stiamo bene insieme. Sono stato contento di incontrare altri artisti, con cui è iniziata una relazione di amicizia. Cinquerosso Arte mi ha già dato tanto.

Scopri le fotografie di Paolo Tamburini!

arredare arte hotel

Come arredare con l’arte il tuo hotel

Nel settore dell’ospitalità si sta sempre più prendendo coscienza di quanto sia importante arredare con l’arte gli hotel. Non si tratta solo di abbellire una parete, ma di creare nel cliente un’esperienza di soggiorno indimenticabile.

Le opere d’arte sono fondamentali per creare un ambiente confortevole e accogliente per l’ospite di un hotel. Non solo: quello che fa la fortuna di un albergo è la sua capacità di imprimersi nella memoria del cliente, che sarà così invogliato a tornare e a consigliare la struttura. Ecco perché sarebbe un grave errore non curare la scelta delle opere d’arte che arredano hall, camere e ambienti comuni. Ciascuno di noi ha sicuramente soggiornato in alberghi di cui non ricorda quasi nulla, perché la struttura era pensata solo per offrire servizi.

Ricordiamo bene invece gli alberghi in cui ci siamo sentiti accolti e curati, gli alberghi che avevano una personalità, un’identità ben precisa.

Ma quali sono gli elementi da tenere in considerazione per arredare con l’arte un hotel?

Innanzitutto lo stile e l’immagine coordinata.

Se l’identità dell’albergo è stata ben impostata, sarà stato deciso uno stile (essenziale, elegante, futurista, shabby chic e così via) e sarà stata selezionata una palette di colori. È indispensabile che le opere d’arte siano in armonia con queste scelte. Ma attenzione, non è detto che – per esempio – a uno stile moderno non possano corrispondere opere dal sapore retrò. Si tratta di saper dosare con maestria gli stili per dare risalto all’opera e valorizzare l’identità dell’albergo. In questo caso il servizio di consulenza di Cinquerosso Arte può rivelarsi particolarmente utile, proprio perché permette di individuare le opere più adatte senza accontentarsi della soluzione più scontata.

L’arredamento e gli spazi.

Le opere d’arte dovranno ben sposarsi con l’arredamento scelto e con gli spazi a disposizione. Questo significa che l’opera dovrà essere collocata dove può essere valorizzata al meglio e valorizzare a sua volta ciò che la circonda. Per fare un esempio piuttosto semplice, un’opera molto piccola in un ambiente molto grande scompare, mentre un’opera molto grande in un piccolo ambiente rischia di risultare visivamente ingombrante e inopportuna. Allo stesso modo, un’opera sovradimensionata rispetto ai mobili svilisce i mobili stessi, e viceversa. E ancora: se l’opera è destinata a essere vista da lontano dev’essere di forte impatto visivo, mentre un’opera molto dettagliata dev’essere collocata dove può essere osservata da vicino. Questi principi valgono per qualsiasi progetto di arredo, che sia un’abitazione privata o un luogo pubblico, ma sono ancora più importanti in un albergo, dove gli spazi devono essere bilanciati al millimetro per garantire funzionalità ed ergonomia senza rinunciare al gusto.

Anche in questo caso poter scegliere tra diversi formati di una stessa opera permette di trovare il match perfetto tra arte e arredamento dell’hotel, ed è per questo che Cinquerosso Arte offre diverse possibilità di personalizzazione.

-L’atmosfera.

In un albergo, l’atmosfera è tutto. È a partire dall’atmosfera che l’ospite percepisce di vivere un’esperienza piacevole e destinata a rimanere impressa nella memoria. Creare la giusta atmosfera significa, per esempio, scegliere i soggetti, gli stili, i colori adatti alle diverse aree dell’hotel. Un’opera perfetta per la sala ristorante potrebbe risultare fuori luogo in camera, perché tutto dipende dall’emozione che si vuole suscitare nell’ospite. Inoltre, a prescindere dalla collocazione, tutte le opere devono esprimere con diverse sfumature l’atmosfera complessiva dell’albergo. Per esempio, per un B&B di montagna si cercherà di creare un’atmosfera molto diversa da quella di un albergo in una metropoli o di uno in riviera. Le opere d’arte in un albergo devono essere coerenti tra loro e differenziate in base alla collocazione. Anche in questo caso Cinquerosso Arte può affiancare gli interior designer per individuare le opere giuste.

-Il budget.

Fattore niente affatto banale, il budget non può certo essere trascurato. Nessun albergo ha risorse illimitate, e le opere d’arte possono essere molto costose. Occorre quindi trovare il giusto equilibrio tra qualità delle opere e capacità di spesa. Sarebbe un errore ragionare solo in termini di risparmio (per esempio acquistando opere di scarso valore) per tutte le ragioni che abbiamo elencato sopra, e anche perché la qualità non invecchia: un’opera d’arte di qualità non subisce le mode e mantiene inalterato il suo fascino nel tempo. Si tratta piuttosto di individuare opere di ottimo livello a prezzi congrui rispetto alle ambizioni della struttura alberghiera. Tutti hanno diritto alla bellezza, anche in viaggio. È il principio dell’arte accessibile che ha portato alla nascita di Cinquerosso Arte, ed è il motivo per cui questo progetto risulta così interessante per chi deve arredare un albergo.

Scopri come arredare con l’arte il tuo hotel grazie al nostro servizio di consulenza!

Giulio Rigoni Arte Mistica

Giulio Rigoni – La mia è un’arte mistica

Volti impassibili come icone bizantine, costruzioni tanto precise quanto improbabili, scene oniriche sospese in un tempo indefinito. L’arte di Giulio Rigoni risveglia moltitudini di ricordi e impressioni, rigorosamente senza guida alla lettura.

Giulio, raccontaci la tua storia artistica.

Ho studiato storia dell’arte all’università, ma poi la vita mi ha portato altrove. Mi sono trasferito a Londra e ho iniziato a lavorare nel settore della pubblicità. Questa passione per l’arte è però riemersa e mi sono messo a dipingere quasi per gioco. Via via è poi diventato un impegno sempre più concreto.

Nelle mie opere mi ispiro moltissimo al mio primo amore: l’arte tardo-gotica. È un’arte a cavallo tra lo stile bizantino, così lontano dal naturalismo,  e il Rinascimento, che invece si addentrò nella scoperta della natura e nella verosimiglianza.

Nel periodo tardo-gotico si iniziò a lavorare sulla figura umana, ma questa continuava ad avere forme più spirituali che realistiche. È qualcosa che mi affascina molto, ed è stato il punto di partenza del mio lavoro.

Hai uno stile molto personale e riconoscibile, che in alcuni casi ricorda le atmosfere di Mille e una notte. Ci sono riferimenti diretti?

Non mi ispiro direttamente a questi racconti, ma posso essere definito un tradizionalista e subisco il fascino delle culture classiche, anche mediorientali. Mi piacciono inoltre le ambientazioni un po’ sognanti, che di certo pescano in un immaginario fiabesco. La chiave di lettura della mia arte è proprio il passaggio tra realtà e finizione, dove la seconda aiuta a capire meglio la prima. Se dovessi descrivere la mia arte in una sola parola, la definirei mistica. Non amo fornire interpretazioni o chiavi di lettura, proprio perché mi piace pensare che ognuno possa trovare qualcosa di diverso nelle mie opere. Vivere un’esperienza unica e, appunto, mistica.

A che cosa ti ispiri per le tue opere d’arte?

Spesso si tratta di temi che danno origine a serie. Per esempio ho disegnato la serie delle torri, che sono tutte diverse tra loro pur partendo da un’idea comune. Le architetture in generale mi piacciono molto, e forse sono un architetto mancato. Mi piacciono le geometrie, mi piacciono le costruzioni del passato. Questo affastellarsi di forme immaginifiche mi diverte e mi dà sempre stimoli. Mi capita sempre più spesso di lavorare anche su commissione; in questo caso il committente mi chiede di interpretare ricordi, narrazioni, che di solito realizzo su più tavole.

Ami molto gli sfondi neri.

In effetti ne vado molto fiero. Lavoro con la pittura a olio su legno, ma per lo sfondo uso l’acrilico, ottenendo un nero particolare, che ha una sua profondità. Le figure risultano così fluttuare in questo cielo nero, un po’ cosmico. Mi piace molto dare l’idea di scene fuori dal tempo, né di oggi né del passato, sospese in un momento indistinto. Le mie opere, insomma, fluttuano in un cosmo circolare che tutti ci governa, sospese nel non tempo.

Per gli sfondi amo molto anche il rosso e il blu, ma in generale la mia palette è piuttosto limitata: uso circa 12 colori e sono sempre gli stessi.

Che cosa pensi del progetto Cinquerosso Arte?

Sono molto contento di essere coinvolto, anche perché è nata una bella amicizia con Francesca Fazioli e mi piace tantissimo il suo entusiasmo. Inoltre questa collaborazione è arrivata al momento giusto, perché da qualche tempo ho iniziato a interessarmi alla stampa fine art. Con questo tipo di riproduzione di altissima qualità, l’opera d’arte diventa più accessibile e democratica e vorrei approfondire le potenzialità in relazione ad alcune mie opere.

Scopri le opere di Giulio Rigoni!

armocromia: scegliere la giusta palette per gli ambienti della casa

Armocromia e interior design – Scegli le opere d’arte in palette con gli ambienti della casa

Secondo i principi dell’armocromia, è importante scegliere la giusta palette per gli ambienti della casa. Ma che cosa vuol dire, concretamente?

Iniziamo dal principio. L’armocromia (termine portato alla ribalta da Rossella Migliaccio nel suo best seller del 2019) è diventato un tema molto popolare in relazione alla cosmesi e all’abbigliamento. Come suggerisce la parola stessa, si tratta di individuare le tonalità che sono in armonia con l’incarnato, nonché con il colore dei capelli e degli occhi. L’insieme di colori che più si addicono a una persona viene definito palette. Oggi è molto diffusa la classificazione di queste palette in “stagioni” e relativi sottogruppi.

Sapere se siamo più “inverno” o più “primavera” è un’utile guida per scegliere un vestito o un make up, ma cosa ha che fare con l’interior design e soprattutto con l’arte?

Di fatto, i principi dell’armocromia non si applicano solo alla persona, ma valgono anche per gli ambienti in cui viviamo. Trovare la giusta palette per gli ambienti della propria casa, come suggeriscono gli esperti di armocromia, non significa solo abbinare bene i colori tra di loro, ma anche sfruttarli per agire sulla percezione dello spazio e sul benessere delle persone.

Colori e tonalità sono elementi che gli interior designer devono tenere in considerazione per garantire equilibrio nell’arredamento, anche in relazione allo scopo dell’ambiente stesso e alla personalità di chi lo abita. A seconda dei colori scelti, per esempio, una cucina potrà trasmettere un’idea di ordine, oppure di vivacità o di calore. Per una camera da letto sceglieremo probabilmente tonalità rilassanti. Ma quello che conta non è il colore in sé: sono soprattutto gli accostamenti. Esattamente come i suoni, infatti, anche i colori possono risultare “stonati”, stridenti, piacevoli o coinvolgenti. I colori possono essere anche “ingombranti”: una palette scura darà l’idea di un ambiente più raccolto e intimo, ma se si esagera si rischia di dare un senso di clausura. I colori molto chiari esaltano gli spazi della casa, ma possono risultare freddi e anonimi. Insomma, si tratta di delicati bilanciamenti, e naturalmente anche le opere d’arte devono concorrere all’effetto di insieme. Ecco perché, applicando l’armocromia agli ambienti di una casa, occorre rispettare la palette anche nella scelta delle opere.

Anzi, in alcuni casi si può partire proprio dall’opera e farsi guidare da essa. La peculiarità degli artisti è proprio quella di saper scegliere tonalità e accostamenti per comunicare e suscitare emozioni, ragione per cui anche gli interior designer possono scegliere di ispirarsi a un quadro oppure a una fotografia nel decidere i colori di un arredo.

Se volete vedere qualche esempio, visitate le pagine degli artisti di Cinquerosso Arte e noterete che le collocazioni delle opere nei diversi ambienti sono realizzate nel rispetto della palette, in perfetta armocromia.

Andrea Piccioli Arte

Andrea Piccioli – L’arte per me è soprattutto relazione

Giovanissimo, Andrea Piccioli ha già alle spalle una storia densa e ricca di avventure, in cui l’arte dà volto alle emozioni, crea legami e fa nascere sempre qualcosa di nuovo.

Come sei arrivato all’arte?

Ho iniziato a disegnare fin da piccolissimo, anche perché era l’unico modo che i miei genitori avevano trovato per tenermi buono. A 8 anni sono stato colpito da una malattia autoimmune e ho dovuto passare un anno in ospedale; in quel periodo l’arte mi ha aiutato tantissimo: disegnavo, leggevo, ascoltavo musica, guardavo film. È stato allora che mi sono innamorato di Miyazaki e ho iniziato a sognare di scrivere e illustrare storie. Non ho più smesso di disegnare e lo faccio in continuazione, o come attività in sé o come semplice passatempo, magari mentre sono in un locale con gli amici. Si può dire che lo faccia per professione da quando ero un bambino, perché già alle medie ho venduto alcune opere.

Hai seguito una formazione specifica?

Ho studiato al liceo artistico, e così ho potuto conoscere il mondo dell’arte e sviluppare le diverse tecniche. Passavo i fine settimana a disegnare e dipingere per strada con uno dei miei più cari amici. Mettevamo un po’ di musica e realizzavamo dei disegni, anche in collaborazione. Li vendevo poi a offerta libera, perché non riuscivo a valutare i miei lavori e quindi chiedevo agli altri di farlo. Mi sono confrontato con il mondo e ne ho ricevuto un grande incoraggiamento, ho conosciuto tante persone nuove che ancora oggi fanno parte della mia vita. Da lì ho ricevuto incarichi per murales, serrande, eventi, esposizioni e performance dal vivo. Queste ultime mi appassionano molto, perché mi interessa soprattutto il rapporto con l’altro. Nel periodo dell’adolescenza ho iniziato a crearmi una mia estetica sempre più definita, in una ricerca che ovviamente continua ancora. In quel periodo ho iniziato a lavorare sui volti, che rappresentavano i miei stati d’animo, l’insieme delle emozioni che provavo. Cerco, insomma, di dare un volto al mio sentire, per avere con esso un rapporto più reale.

L’arte è quindi centrale nella tua vita.

Sì. L’arte mi definisce. Sento la necessità di esprimermi attraverso l’arte, e questo mi porta a vivere esperienze molto cariche di significato. Dopo il liceo, per esempio, sono partito e sono andato su un’isola del Canada grande come la Corsica ma abitata appena da 5000 persone. L’idea era di soggiornare per un breve periodo e poi riprendere il viaggio, ma mi sono trovato nel bel mezzo della pandemia. Tutti i collegamenti sono stati interrotti e ho trascorso lì diversi mesi. All’inizio lavoravo come aiuto cuoco e giardiniere, ma poi le persone del posto hanno iniziato a conoscermi e ad apprezzare quello che facevo. Su quell’isola vivono in armonia diverse comunità: ci sono famiglie di indigeni, ma anche americani, europei, asiatici e africani. L’isola mi ha accolto, e ho passato il resto della mia permanenza a realizzare opere per la comunità e per i privati. Tra le altre cose ho aiutato a costruire un rifugio nella foresta, per cui ho decorato stanze, cucina, porte…

Un’esperienza indimenticabile.

Assolutamente. Da solo, dall’altra parte del mondo, sono riuscito a comunicare e creare un rapporto con queste persone proprio grazie all’arte. Del resto la mia concezione dell’arte è molto vicina all’estetica relazionale di cui parla Nicolas Bourriaud. Mi interessa il rapporto tra arte e vita, tra arte e umanità.

Come si inserisce Cinquerosso Arte in tutto questo?

Anche in questo caso nasce tutto da una relazione, perché sono arrivato a Cinquerosso Arte grazie a un amico. Ringrazio lui e Francesca per avermi fatto entrare in questa squadra, perché mi ha permesso di avvicinarmi di più al panorama artistico italiano. Finora ho sempre “lavorato dal basso”, nelle strade, nei centri sociali, nei festival. Il fatto di avere stampe delle mie opere in questo nuovo contesto è per me una grandissima opportunità.

Scopri le opere di Andrea Piccioli!

Ogni casa è un concerto

Ogni casa è un concerto – Intervista a Nicola Grandolini, Vicepresidente AIPI

Cinquerosso Arte è entrato a far parte dell’AIPI, Associazione Italiana Professionisti Interior Designers. Nicola Grandolini ci spiega perché è così importante comprendere le opere d’arte nei progetti d’arredo.

Di che cosa si occupa la vostra organizzazione?

L’AIPI esiste da oltre 50 anni ed è l’unica nel nostro Paese a rappresentare questa categoria. Spesso la figura dell’interior designer viene confusa con quella dell’arredatore, ma in realtà si tratta di una professionalità specifica. Noi ci preoccupiamo della qualità della vita delle persone, a partire dagli spazi in cui vivono o che si trovano a frequentare.

Qual è il ruolo dell’interior designer?

Intanto bisogna precisare che è una figura a sé stante, con competenze più specifiche rispetto a un architetto. Un po’ come per la medicina: c’è la medicina generale e poi ci sono gli specialisti. Noi siamo gli specialisti degli interni. Non abbiamo la direzione del cantiere come gli architetti, ma abbiamo la direzione concettuale e creativa del concept degli interni. Il nostro approccio, quindi, si basa sulla collaborazione con impiantisti, artigiani, professionisti e tutti i tecnici coinvolti nel progetto. È un lavoro necessariamente di squadra. Pensiamo a un grande architetto come Gaudí: non avrebbe mai potuto realizzare quello che ha realizzato senza poter contare su bravissimi collaboratori quali ebanisti, fabbri etc.

Parlando di collaborazioni, Cinquerosso Arte è appena entrata a far parte della vostra organizzazione. Che cosa ne pensa?

Siamo felici di avere il contributo di Cinquerosso Arte. Abbiamo bisogno di partner, e poter sviluppare un progetto insieme a Cinquerosso Arte significa poter avere nella squadra anche gli artisti, che hanno il potere di creare emozioni dentro altre emozioni. Un interior designer può scegliere un’opera in sintonia con il progetto che ha in mente, ma può accadere anche il contrario: si può partire da un’opera d’arte, dalle emozioni che esprime, e intorno a essa costruire il concept di uno spazio.

Dunque è importante tenere conto dell’arte nell’immaginare un arredamento?

Certamente. Un interior designer ha il compito di organizzare gli ambienti intorno al benessere delle persone che li abitano e li frequentano, dalla casa alla scuola, dalla sala conferenze all’ospedale. Ed è qualcosa che ha una grande importanza nella vita di ognuno di noi. Non a caso abbiamo tra i nostri collaboratori anche degli psicoterapeuti. Un ambiente non armonioso risulta nocivo. Il Covid ha costretto tutti a riflettere su questo tema, perché in tanti si sono ritrovati chiusi in abitazioni “scomposte”, non organizzate per garantire il benessere. Pensiamo a una casa. Se vogliamo che una persona arrivi a dire “Sto davvero bene in questo ambiente”, dobbiamo tenere conto delle sue abitudini ma anche delle sue emozioni. Ecco perché è importante includere anche l’arte e farlo in modo organico. L’ingresso di Cinquerosso Arte nella nostra associazione ci permetterà di avere a disposizione tante opere d’arte, tanti stili e tante visioni, e di sviluppare collaborazioni a beneficio dei clienti.

Come si svolge il vostro lavoro?

Noi siamo i sarti che devono realizzare il vestito giusto per il cliente, un vestito nel quale si senta a suo agio. Si parte sempre da un approfondito dialogo con cliente per capire quali sono le sue necessità, le sue preferenze e il suo modello di vita. In sintesi, partiamo dal dialogo con il cliente, collaboriamo con tanti professionisti supervisionando il lavoro di tutti, per assicurare il benessere delle persone. 

Una casa, un ospedale, una scuola, un albergo, un ufficio… insomma, qualsiasi ambiente è un concerto, e noi interior designers siamo i direttori d’orchestra. 

Quali sono i compiti della vostra organizzazione?

Come associazione siamo attivi non solo nella tutela di questa figura professionale, ma anche nel creare collaborazioni e sinergie. Per esempio, siamo soci fondatori del POLI.design del Politecnico di Milano, collaboriamo con scuole ed università nostre associate quali lo Iuav di Venezia. I nostri iscritti lavorano in Italia e in tutto il mondo, e ovviamente abbiamo collaborazioni attive a livello internazionale. Abbiamo appena organizzato, per esempio, una convention a Firenze con Ifi (International Federation of Interior Architects/Designers) ed Ecia (European Council of InteriorArchitects).

Abbiamo creato di recente un comitato tecnico-scientifico per lo sviluppo e la qualifica della figura dell’interior designer a livello europeo. Altra novità degli ultimi tempi è l’iscrizione al Mise, presso il Ministero delle imprese e del Made in Italy, in seguito alla quale abbiamo assunto anche un ruolo attivo nella formazione. Ora dobbiamo costruire percorsi di approfondimento e aggiornamento, e possiamo farlo anche grazie alle università che iniziano a offrire corsi di laurea in interior design.

Maria Paola Grifone – La realtà mi interroga

Si definisce permeabile, Maria Paola Grifone. Permeabile a tanti stimoli, da un’ombra su un muro a una notizia di attualità, che sente il bisogno di indagare attraverso l’arte. Dipingere per conoscere, dunque, come spiega con parole limpidissime.

Maria Paola, puoi raccontarci il tuo percorso?

Ho fatto il liceo artistico tradizionale, dove ancora si disegnava tanto, e forse per questo sono così legata alla copia dal vero. In seguito ho frequentato un corso per fashion designer, ma mi sono resa conto che mi interessava più l’illustrazione di moda che non la realizzazione di modelli, e ho deciso di iscrivermi all’Accademia di belle arti. Qui ho frequentato il corso di pittura e ho avuto modo di approfondire la mia identità artistica, anche attraverso le mostre e tutto quello che girava attorno a quell’ambiente.

Quali tecniche usi solitamente?

Dipende molto dai periodi. Le diverse tecniche che utilizzo sono accomunate dall’immediatezza esecutiva. Quindi, ad esempio, la china su carta lucida mi permette un’esecuzione diretta; non ho bisogno di fare bozzetti o studio del soggetto, quello che succede sulla carta è il frutto di un flusso continuo tra me, il soggetto stesso e quello che utilizzo per rappresentarlo, in questo caso la china. In quest’ultimo periodo sto utilizzando carboncino, fusaggine, grafite in polvere su carta oppure tela preparata. Diciamo che utilizzo degli estremi di materia: la china è molto liquida, e scivola sulla carta, mentre la polvere di grafite, oppure il carboncino, sono materiali secchi, cioè l’esatto opposto. Non ho ancora capito se c’è un motivo per questo mio passare da un estremo all’altro. In ogni caso per me la tecnica non può essere distinta dal contenuto. Se uso l’olio o l’acrilico, per esempio, è perché quello che voglio esprimere può essere espresso solo con l’olio o l’acrilico. Questo gioco di “opposti” mi ha portato all’essenzalità del bianco e nero, diventato indispensabile per la mia esigenza espressiva. È un contrasto che fa emergere le contraddizioni più umane: la vita e la morte, la luce e il buio… tutto ciò che siamo.

Quali sono le tue fonti di ispirazione?

Non è semplice rispondere a questa domanda. Diciamo che le sto pian piano scoprendo, ne sto prendendo consapevolezza. L’ispirazione la trovo osservando la realtà, a partire dagli oggetti, o dai volti, per esempio. Ho fatto dei lavori sulle ombre che si formano sui muri, per fare un altro esempio. Ho capito che quando il mio sguardo si posa su qualcosa devo indagare.

Ultimamente sono attratta da tematiche di attualità, per cui sto lavorando sulla guerra e sulla sofferenza. In questo caso le mie fonti sono i media, dai giornali al web. Cerco e guardo immagini a non finire, ovunque.

Mi sono di ispirazione anche la musica – che ascolto quotidianamente – i video musicali, o i film. Perfino una conversazione o un articolo possono essermi di stimolo, magari per riflettere poi su un aspetto sociale o psicologico. Sono molto permeabile. Mi piace guardare, mi piace ascoltare, e se qualcosa mi colpisce sento l’esigenza di approfondirla e rappresentarla. 

Attualmente su cinquerossoarte.com ci sono Le forme nascoste, Equilibrio, Dentro di me e Vaso nero. Cosa puoi dirci di queste opere?

Sono oggetti rappresentati dal vero, con cui ho un legame affettivo. Hanno in comune il fatto di essere contenitori. Non sono vuoti, insomma. Mi piaceva giocare – ancora una volta – con gli opposti: il pieno e il vuoto in uno spazio bianco, quasi eterno, senza connotati. La tecnica che ho utilizzato, la china su carta fotografica, mi ha permesso di ottenere quell’immediatezza di cui parlavo. È un non-controllo che lascia spazio a ciò che liberamente accade mentre dipingo, anche quando si tratta di “errori”: spesso sono proprio questi a sorprendermi e a portare l’immagine dove voglio. È una tecnica di realizzazione, ma è anche una metafora della vita che funziona proprio così, per imprevisti e sbavature.

A cosa stai lavorando in questo momento?

In questo periodo sto indagando un tema molto caldo, cioè il rapporto tra uomo e tecnologia. Quello che sento emergere e che rappresento è un’umanità che, di fronte alla complessità, cerca una via di fuga. Sono figure immerse in un vuoto fisico, con tanto bianco che sottolinea questa distanza tra noi e la realtà. Presto le vedrete su cinquerossoarte.com.

Scopri le opere di Maria Paola Grifone!

Buon compleanno Cinquerosso Arte

Buon compleanno Cinquerosso Arte!

Il 5 maggio 2022 iniziava ufficialmente l’avventura di Cinquerosso Arte. A dodici mesi di distanza si può già fare un primo bilancio, tra aspettative e prospettive. Ne parliamo con Francesca Fazioli, mente e cuore del progetto.

Francesca, ripensando a un anno fa, qual è la prima cosa che ti viene in mente?

Ricordo in particolare la fibrillazione di quei giorni. Anche se il varo ufficiale di Cinquerosso Arte è avvenuto il 5 maggio, avevamo alle spalle già diversi mesi di lavoro, durante i quali abbiamo coltivato l’idea ed il progetto, dandogli corpo giorno dopo giorno.

In quel momento il futuro era pieno di incognite, perché si trattava di percorrere una nuova strada, ma eravamo animati da una grandissima energia. E devo dire che quella energia non è mai venuta meno, ma al contrario è progressivamente cresciuta, alimentata anche dall’entusiasmo dei nostri artisti, sia di quelli già presenti sin dall’avvio che di quelli che via via si sono aggiunti.

Sei soddisfatta dei risultati ottenuti nel nome dell’arte accessibile?

Sì. La mia idea era dare visibilità e mercato agli artisti emergenti, e credo di aver colto nel segno decidendo di investire sul talento. È una grande soddisfazione notare che nel tempo ci sono state tante adesioni. Oggi con Cinquerosso Arte collaborano artisti giovanissimi e altri con maggiore esperienza, persone che vivono d’arte e altre che nell’arte hanno trovato una strada parallela per esprimersi. In ogni caso la qualità delle opere è straordinaria, come è possibile notare scorrendo la nostra galleria.

Ci sono episodi che ricordi con particolare piacere?

Sono tanti, è impossibile elencarli tutti. Sicuramente la partecipazione ad alcuni importanti eventi fieristici, entusiasmante sotto molti punti di vista. Per una realtà appena nata come la nostra è stato di grande impatto partecipare a Parigi ad un evento di respiro internazionale come Maison et Objet. Abbiamo preso parte al Sia di Rimini, la fiera dedicata all’ospitalità, dove, tra l’altro, abbiamo avuto il privilegio di fare la conoscenza di Marcello Ceccaroli, un architetto di grande peso nel mondo dell’hôtellerie. Siamo stati, inoltre, tra coloro che hanno animato Artefiera White Night 2023, in occasione della prestigiosa fiera dell’arte di Bologna, con un’apertura straordinaria dei nostri spazi ed un live painting di grande impatto emotivo che ha raccolto tanto interesse.

Ancora, posso citare con grande soddisfazione il fatto di essere stati contattati da Ennismore, una società internazionale che cura e gestisce prestigiosi hotel in diversi Paesi, interessata alle nostre opere per arredare una elegante struttura di prossima inaugurazione. E infine, per arrivare alla più recente novità, siamo diventati partner di AIPI – Associazione italiana professionisti interior designers. Questa collaborazione dispiega tante possibilità, e ne siamo ovviamente molto orgogliosi.

Insomma, appena nato, Cinquerosso Arte ha già fatto tanta strada. Qual è il prossimo obbiettivo?

In questo anno abbiamo gettato le fondamenta, coinvolgendo tanti artisti e stringendo molti contatti. Ora puntiamo a consolidare il nostro brand, a posizionarci come interlocutori affidabili nel settore dell’architettura e dell’arredamento. Ci rivolgiamo soprattutto ai professionisti, perché siamo convinti che le opere d’arte rappresentino un grande valore aggiunto nella progettazione di un ambiente.

La nostra missione rimane duplice: favorire il talento e portare sempre più arte nella vita delle persone. Mi emoziona pensare che le opere dei nostri artisti entrino in una casa, nella hall di un grande albergo, nelle sale riunioni di un ufficio… insomma in un luogo vissuto e frequentato che attraverso l’arte diventa più vivo. Non un semplice spazio arredato, ma un ecosistema in cui convivono funzionalità e bellezza.

Guarda il video!

Riccardo Basaglia

Riccardo Basaglia – Disegno per conoscere

L’arte è, per Riccardo Basaglia, un modo per scoprire cose nuove. I suoi disegni nascono dal confluire di temi e culture, ma anche di tecniche e strumenti. La sua è una mente curiosa e aperta, oltre che creativa. Ne risultano opere ricche, quasi esplosive nella loro vitalità.

Riccardo, raccontaci il tuo percorso formativo. Come ti sei avvicinato all’arte?

Sono completamente autodidatta e non ho più ricevuto un’istruzione artistica dopo le scuole medie. Fino a quel momento avevo frequentato scuole steineriane, dove i bambini sono molto stimolati a esprimersi artisticamente, ma con il passaggio al liceo ho proseguito da solo. Non ho mai avuto nessuno che mi seguisse, che mi potesse indirizzare o consigliare. Tutte le tecniche che uso, per esempio, le ho imparate da tutorial online. In un primo momento usavo gli acquarelli e i miei soggetti erano principalmente paesaggi ed elementi naturali, poi mi sono avvicinato agli acrilici che hanno un impatto più potente sul foglio, e ho finito per mischiare entrambe le tecniche.

Nella formazione di un artista contano, ancora prima delle tecniche, la cultura e le fonti di ispirazione. Quali sono le tue?

Le fonti di ispirazione non mi sono mai mancate, per fortuna. Inizialmente mi ispiravo soprattutto alla natura, come dicevo, mentre in seguito ho maturato un interesse crescente per la tecnologia. Venendo da una scuola steineriana, per me è stata una specie di rivelazione che è arrivata al liceo: non avevo mai visto una lavagna elettronica, per esempio! Questo avvento della tecnologia nella mia vita ha avuto effetti sui miei disegni. Come per le tecniche, anche nel caso dei soggetti ho cercato di unire due ambiti diversi: i contesti naturalistici e gli elementi tecnologici. C’è un po’ la tendenza a dividere le opere diciamo “manuali” e quelle ottenute con ausili tecnologici. Invece io cerco di far convivere tutto, in particolare con l’opera a cui sto lavorando in questi giorni. Ho disegnato un paesaggio naturale, poi l’ho scannerizzato e ho aggiunto file digitali: un’operazione possibile solo unendo i due approcci. Il risultato mi soddisfa. Il mio obbiettivo è realizzare opere di questo tipo, in cui però l’aspetto tecnico non dia troppo nell’occhio: voglio opere armoniose, piacevoli.

In fondo anche la tecnologia è frutto della creatività umana.

Esatto. Anzi, oggi lo sviluppo dell’intelligenza artificiale rende sempre più complicato capire quanto sia frutto diretto del lavoro umano e quanto invece venga prodotto da un programma (non più solo tramite un programma). Secondo me non bisognerebbe distinguere in modo così netto. L’intelligenza artificiale può essere usata come strumento per portare a compimento un’idea, bisogna imparare a usarla. Di umano c’è appunto l’idea, che non viene delegata allo strumento.

A proposito di idee, tu attingi a un immaginario molto vasto…

Su di me ha avuto molta influenza la cultura giapponese, che è molto interessante proprio perché così differente dalla nostra. Anche in questo caso ho cercato una possibilità di incontro, fondendo elementi che provengono da culture diverse e ricercando simbologie affini alla cultura occidentale. Il cyberpunk trae spunto proprio dalle città più sviluppate in Asia dove, in uno scenario futuristico distopico, il controllo della tecnologia è sfuggito di mano e la natura è quasi assente. L’effetto di immersione che cerco di trasmettere con i miei disegni è volto ad una ricerca di una possibile comunione tra tecnologia e natura che renda possibile uno sviluppo tecnologico sostenibile in un futuro ideale. Ho poi scoperto che esistono diversi sottogeneri del cyberpunk, e questo mi ha stupito. Ecco, i miei disegni nascono da scoperte e mi spingono a scoprire sempre cose nuove. Adesso per esempio sto studiando il carboncino, qualcosa di lontano da quello che ho fatto finora. È la curiosità che mi muove. Mi piace conoscere, imparare e immaginare.

Scopri le opere di Riccardo Basaglia!

Architetto Marcello Ceccaroli

Marcello Ceccaroli – L’albergo si apre alla città e all’arte 

Decine di grandi alberghi in Italia portano la firma di Marcello Ceccaroli, noto architetto romano che viaggia per il mondo alla ricerca di nuove suggestioni. Un settore, quello dell’hôtellerie, che sta cambiando anche nel segno dell’arte.

Il suo studio è specializzato in hôtellerie. Come mai questa scelta?

È un percorso iniziato subito dopo la laurea, nel 1994, quando mi sono trasferito in Brianza per lavorare con un’azienda che operava in questo settore. Si trattava di alberghi di altissimo livello, quasi tutti a cinque stelle. Lì ho imparato tanto, partendo dal basso e arrivando al project management. Nel 1999 ho aperto il mio studio a Roma, e da allora abbiamo realizzato oltre 130 strutture, tra alberghi e ristoranti, in Italia.

Qual è l’aspetto che l’appassiona di più di questo lavoro?

Sono finito nel mondo dell’ospitalità quasi per caso, ma l’ho trovato davvero molto affascinante. Sicuramente mi stimola da un punto di vista professionale, perché il settore hôtellerie è sempre in espansione e dà molta visibilità: un conto è realizzare un’abitazione privata, un altro conto è mettere la propria firma sul progetto di un albergo, frequentato da tantissime persone.

Inoltre è un mondo in continua evoluzione, con prodotti innovativi che aprono la strada a molte sfide. Basti pensare che un tempo il mio studio si occupava solo di interni, mentre oggi ci chiedono una progettazione completa: location, progetto architettonico, strutturale, impiantistico e arredamento. Amo talmente tanto il mio lavoro, che ho trasformato le mie vacanze in un’occasione per imparare sempre di più: viaggio con la mia famiglia per visitare gli alberghi più interessanti di tutto il mondo, così mi tengo sempre aggiornato e ispirato.

Che cosa è cambiato in questi anni nel settore?

Trenta, trentacinque anni fa, l’albergo era un edificio chiuso, il cui business era limitato alla clientela. Oggi gli alberghi si sono aperti alla città, organizzano e accolgono sfilate di moda, mostre, ricevimenti, eventi. I ristoranti degli alberghi, che prima non venivano presi in considerazione da clienti esterni, oggi sono importanti punti di aggregazione.

C’è anche un cambiamento in atto in Italia, che arriva per ultima in questo: un tempo gli alberghi nel nostro Paese erano quasi tutti gestiti da privati, mentre oggi si stanno diffondendo le grandi catene, come già avviene all’estero.

Parlava di mostre. Dunque c’è spazio per l’arte negli alberghi?

Sì, certamente. Gli alberghi possono ospitare esposizioni temporanee nelle hall, e questo è uno dei modi in cui l’arte può entrare in questo settore.

Ma c’è spazio per anche in fase di progettazione. Per esempio, di recente abbiamo realizzato un albergo nei pressi della Stazione Termini, a Roma, e in questa occasione ci siamo rivolti al noto sculture Jago, che ha realizzato una serie di opere appositamente per noi. Inserisco spesso opere d’arte nei miei progetti, perché in questo modo l’ospite dell’albergo potrà goderne durante il suo soggiorno.

A questo proposito, cosa pensa del progetto Cinquerosso Arte?

Devo dire che mi piacerebbe collaborare. Ho visto opere davvero molto interessanti, e prima o poi vorrei inserire dei pezzi nei miei progetti perché potrebbe essere un bellissimo connubio. Quando progetto un albergo, mi ispiro tantissimo alla location: mi piace pensare di poter trovare opere che diano un valore aggiunto coerente con questa ispirazione, che diano carattere e riconoscibilità.

L’albergo ha solo da guadagnare nel poter esibire un’impronta artistica. Io stesso, nei miei viaggi, sono felice quando un albergo mi dà emozioni, e cosa c’è di più emozionante dell’arte?

Siamo a ridosso del Salone del Mobile di Milano, un evento molto importante per chi fa il suo mestiere. Sarete presenti?

Abbiamo due progetti che vorremmo esporre. Uno sarà ospitata in uno stand sperimentale, mentre l’altro è una vera e propria camera d’albergo, ma non posso dire di più perché sono sorprese riservate alla fiera.

Andrea Marchesini

Andrea Marchesini – L’arte è viaggio

Un’arte che nasce libera e spazia nel pensiero, muovendosi tra elaborati concetti e sensazioni impalpabili. Andrea Marchesini ha iniziato il suo percorso su un grande tavolo ricoperto di carta e lo prosegue “da qualche parte, da nessuna parte”.

Qual è la prima parola che ti viene in mente pensando alle tue opere d’arte?

Me ne vengono in mente molte, ma alla fine quella che le condensa tutte è “viaggio”, intenso come percorso interiore. Un viaggio dove non conta la meta, non conta arrivare. Quello che conta sono le tappe. Un po’ come una carovana nel deserto, che beneficia delle oasi per poter proseguire all’infinito. Tutto questo è in funzione dello sviluppo di un pensiero creativo, che cerca risposte alle domande che da sempre ci poniamo.

Ecco che cos’è per me la pittura: la conseguenza di un pensiero, un modo di vivere, specchio dell’artista stesso.

Da cosa parte la tua azione creativa?

Il mio è un costante flusso di “coscienza” alla Joyce composto da infiniti flashback che fanno apparire immagini a cui cerco di dare un senso. I miei quadri non sono dipinti tradizionali, sono creazioni: c’è molta parte di colore, molta parte di tessile, ma anche materiali quali gesso o stucco. L’opera finisce quando trovo un equilibrio tra la mia interiorità e l’armonia di forma, colore e peso dell’opera stessa. Quando i lavori sono in fase terminale, ma manca ancora un “quid”, li dispongo a semicerchio davanti al divano del mio studio, mi siedo e li osservo nel più completo silenzio. Sostanzialmente familiarizzo con le mie stesse opere, finché non capisco come completarle per raggiungere l’equilibrio di cui parlavo.

Puoi farci un esempio di come nasce un dipinto o un progetto artistico?

Prendiamo la serie di opere “Frankenstein 2.0”. Quei dipinti sono nati da una mia riflessione: l’umanità, per poter evolvere e passare quindi a uno stadio successivo, deve prima destrutturarsi – come in un puzzle – e poi ricomporre quelle stesse tessere in ordine diverso. Il mostro di Mary Shelley in realtà non è altro che un passo positivo nell’evoluzione dell’umanità, un gradino più in alto. Ed ecco che per realizzare queste opere ho preso vecchi lavori lasciati incompiuti, ne ho ritagliato dei pezzi a cui ho dato nuova forma e li ho ricomposti applicandoli su nuove tele, per ottenere un unicum. Lo stesso avviene per i colori. Io uso olio, smalti e acrilici. Olio e smalto sono basi sintetiche, mentre l’acrilico è base acqua: sono quindi sostanze che si respingono. Anche in questo caso cerco l’armonizzazione tra opposti.

Più che dipingere, io creo. Per indole sono contro il pensiero unico a favore dell’individualità e della libertà dell’azione creativa. E questo si evince anche dall’ambiente in cui lavoro. Il mio studio si trova isolato tra campi di grano e vigneti, nella più assoluta tranquillità. All’interno invece è una sorta di laboratorio alchemico, un enorme caos in cui – per muoversi – bisogna aprirsi una via tra libri, quadri, oggetti, colori, burattini, maschere… Questo è il mio rifugio, la mia sicurezza. Da spazio creativo è diventato sostanzialmente un luogo, che è una cosa ben diversa. È il mio “Somewhere-Nowhere”, che peraltro è il nome del progetto a cui sto lavorando in questo momento.

Di che cosa si tratta?

“Somewhere-Nowhere” è il titolo di una mostra che sto preparando per la galleria MA-EC di Milano e che aprirà al pubblico nel mese di maggio. Nelle opere che sto realizzando mi ispiro alla mia Isola che non c’è, che è “da qualche parte” ma anche “da nessuna parte”.

Puoi raccontarci brevemente la tua storia artistica?

Io sono figlio d’arte e sono praticamente cresciuto nell’atelier di mia madre. Mi sono formato, più che nelle accademie, nel vivo di uno studio artistico. A questo proposito c’è un ricordo che amo raccontare. Quando io e mia sorella avevamo 4 o 5 anni, mia madre ci metteva a disposizione un lungo tavolo coperto interamente di carta, ci buttava sopra pennarelli e matite e ci diceva: «Adesso divertitevi». Così io  passavo le giornate a disegnare e colorarne ogni centimetro. È qualcosa che ha influito sulla mia evoluzione, tanto che ora prediligo lavorare sul grande. Quella libertà creativa, quello spazio infinito da riempire… sono ancora dentro di me.

Scopri le opere di Andrea Marchesini!

Mauro Sini fotografia

Mauro Sini – Fotografare per delimitare il vuoto

Appassionato di architettura, Mauro Sini ricerca anche nella fotografia linee essenziali, forme nette e precise. È uno studio sullo spazio, da esplorare assecondando il proprio ritmo interiore.

Mauro, come sei approdato alla fotografia?

Ci sono arrivato relativamente tardi, a 34 anni. In precedenza, essendo molto attratto dall’architettura, avevo iniziato un percorso di studi universitario che ho poi abbandonato. Quello per la fotografia è un amore sbocciato da bambino, quando ho avuto la fortuna di ritrovarmi tra le mani una vecchissima macchina fotografica dei primi del Novecento, che mi ha aperto un mondo. Poi quell’amore è stato lasciato e ripreso fino a quando, all’età di 34 anni, ho deciso che da grande volevo fare il fotografo. In questo passaggio sono stato aiutato dai miei due maestri; uno è Flavio Renzetti, scultore e pittore, l’altro è Massimo Costoli, fotografo. Massimo, in particolare, mi ha aperto la mente e ha cambiato il mio modo di pensare e vedere fotograficamente. Insomma, grazie a lui ho scoperto chi è il Mauro Sini fotografo. Da allora ho iniziato una carriera come fotografo di abbigliamento e di interni, e parallelamente porto avanti la mia ricerca artistica.

L’architettura è rimasta nella tua vita, visto che i tuoi soggetti sono spesso edifici.

Sì, la fotografia di architettura è per me quasi una necessità, perché ricerco linee, pulizia. Spesso escludo volontariamente la figura umana, se non ha un senso nel contesto che sto fotografando. Il mio è un amore per lo studio dello spazio, che del resto è la stessa cosa che mi ha sempre affascinato nell’architettura. Quello che faccio nelle mie fotografie è tentare di delimitare il vuoto, ritagliare spazi all’interno di un vuoto attraverso il mio personalissimo punto di vista.

Poi ci possono essere progetti particolari come Mitoraj, che ho realizzato a Pompei, dove c’è la figura umana ma nella forma sublimata delle statue.

In ogni caso la mia creatività si esprime così, nel togliere più che inserire qualcosa nel frame del fotogramma. Anche nei paesaggi, in effetti, ricerco linee ed essenzialità.

Usi anche il colore o preferisci il bianco e nero?

Uso il colore solo quando il bianco e nero non valorizza l’immagine. E se nel bianco e nero sfrutto i contrasti, i colori sono sempre piuttosto scuri perché tendo a spegnerli. Insomma, nelle mie fotografie il colore c’è raramente, e quando c’è è comunque denso, mai brillante.

Del resto le fotografie che scatto per lavoro sono sempre a colori, e spesso a tinte molto vivide. In un certo senso il bianco e nero è la mia nicchia, il mio rifugio, dove tutto funziona come voglio e che riesco a leggere al mio ritmo.

Qual è il tuo metodo? Procedi seguendo un piano o ti lasci guidare dall’ispirazione?

A parte alcuni progetti specifici come Mitoraj, mi lascio guidare da quello che vedo. A volte vado a cercare dei luoghi che mi incuriosiscono. Fotografo quello che vedo, e avendo sempre viaggiato per lavoro mi ritrovo spesso in posti che offrono ispirazione e in cui magari ritorno per scattare con calma. Adesso per esempio sto lavorando a fotografie di archeologia industriale realizzate in un rudere dell’Argentario, dove ho intenzione di tornare per fotografare gli stessi luoghi in diverse ore della giornata. Questo è un progetto piuttosto strutturato, ma spesso i miei scatti sono casuali: passeggio e vengo colpito dalla proiezione di un’ombra, da un riflesso o dalla luce che attraversa una finestra.

Scopri le opere di Mauro Sini!

paola fotografa corpo femminile

Paola Stefanizzi – Universo donna

Fotografa professionista specializzata nella moda, in campo artistico Paola “sveste” il corpo femminile e lo rappresenta nella sua purezza.

Paola, raccontaci la tua formazione come fotografa.

Ho iniziato da adolescente, con gli studi all’istituto d’arte. Dopo la scuola lavoravo come assistente in uno studio fotografico, cercando di “rubare” i segreti del mestiere. Ho poi frequentato l’Istituto europeo di design di Roma, e per un periodo ho accarezzato l’idea di dedicarmi alla professione di reporter, ma poi ho capito che non faceva per me. Contemporaneamente continuavo a lavorare come assistente in vari studi fotografici, affiancando la formazione accademica all’esperienza sul campo, e infine sono approdata a Bologna dove mi occupo ormai da diversi anni di cataloghi di moda. Del periodo della mia formazione ricordo che mi piaceva moltissimo sviluppare e stampare il bianco e nero, e ho passato tantissimo tempo in camera oscura, sperimentando. Mi è sempre sembrata una magia quello che avveniva là dentro: la pellicola fotografica catturava quello che c’era nel mondo e lo restituiva sulla carta.

E come ti sei trovata con il passaggio al digitale?

Ovviamente è tutto molto diverso. Per lavoro uso tantissimo i programmi per la postproduzione, che consentono di ottenere in brevissimo tempo quello che una volta richiedeva giornate intere. Senza considerare che prima avevamo pochi scatti a disposizione, mentre oggi possiamo farne un’infinità. Venendo dalla scuola dell’analogico, cerco di scattare poco perché per me è un problema dover scegliere tra le tante versioni della stessa immagine. E nelle fotografie che faccio a scopo creativo non intervengo con il fotoritocco se non in minima parte. Di solito l’unico intervento consiste nel passaggio al bianco e nero.

Parlaci della tua arte, dunque.

Negli anni ho sperimentato diversi temi, ma oggi mi concentro sulla rappresentazione del corpo femminile. Immagini di donne, quindi, spesso in bianco e nero, con i contrasti accentuati e molte ombre. Non sempre è visibile il viso, perché mi interessa di più il rapporto tra il corpo e l’ambiente. Inoltre mi piace lavorare con il movimento e con vari tessuti per creare composizioni.

Spesso espongo le mie fotografie in mostre che sono legate a tematiche o a giornate particolari, come la Festa della donna o la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, a volte in collaborazione con enti pubblici.

Chi sono le donne che fotografi?

A volte fotografo modelle, ma più spesso persone vicine a me. Mi capita anche di fotografare me stessa perché è più facile e immediato. Ovviamente il coinvolgimento emotivo è diverso, perché come soggetto fotografato provo un certo tipo di sentimenti che vorrei poter trasmettere allo spettatore; mi piace pensare che le emozioni che provo possano arrivare a chi guarda le mie foto. Ma quello che mi preme è il racconto della figura femminile, qualcosa che va oltre la persona.

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Chiara Castelli

Chiara Castelli – Serve una cultura dell’arte, anche per l’interior design

Architetto e designer, Chiara Castelli ama instaurare con i clienti un rapporto di intimità e fiducia. Ascolto ed esperienza sono dunque i requisiti indispensabili per un arredamento dalla forte personalità.

Chiara, ci può descrivere il suo lavoro?

Be’ intanto posso dire che sono innamorata del mio lavoro. Il mio tempo libero lo dedico a cercare oggetti, materiali, idee. Sono laureata in architettura al Politecnico di Milano, ma mi occupo principalmente di architettura d’interni; essendo cresciuta in una famiglia di mobilieri ho sempre avuto a che fare con l’arredamento. Come architetto in effetti sono un po’ atipica perché ho un negozio di arredamento dove vendo sia i mobili disegnati da me, sia pezzi unici o comunque non prodotti in serie. La mia filosofia è infatti no logo. Il cliente che viene da me non cerca una marca, ma vuole qualcosa di distintivo, che abbia la mia impronta e sia frutto della mia selezione. Seguo quindi il cliente in ogni aspetto del progetto, dalla disposizione degli ambienti alla scelta dei tessuti e degli oggetti di arredo.

Nei miei lavori prediligo i colori caldi e do grande importanza ai materiali; uso moltissimo, per esempio, i metalli ossidati. Cerco di rimanere in linea con le tendenze, ma sono piuttosto eclettica e preferisco mischiare, dai pezzi di design a oggetti di antiquariato. In linea generale mi ispiro allo stile decorativo francese, per cui non sono certo “asciutta”, ma nel disegnare i miei pezzi scelgo sempre linee molto essenziali.

Qual è la parte che le piace di più di un progetto?

Devo dire che mi piace tantissimo il rapporto che si crea con il cliente. Entro nella vita delle persone, nelle loro case, in modo molto intimo. Vengo a sapere come la gente vive, quali sono le abitudini della famiglia, e spesso mi ritrovo a fare un po’ da psicologa. Nel tempo ho imparato ad ascoltare, a gestire anche alcune dinamiche che si creano per esempio tra marito e moglie, e quindi a offrire le mie idee. Amo questo aspetto del mio lavoro perché da me arriva la giovane coppia che sta per andare a vivere insieme per la prima volta, così come la coppia più matura che ha un altro tipo di atteggiamento e di bisogni. Ed è bello entrare nel loro mondo. La sfida è capire che cosa vuole chi ho davanti e cercare di filtrarlo con le mie scelte: per me il cliente non ha sempre ragione, e non lo assecondo se penso che le sue idee abbiano dei difetti.

Che ruolo ha l’arte nel suo lavoro, e cosa pensa di Cinquerosso Arte?

Do un grandissimo peso alle opere d’arte e più in generale a quanto finirà sulle pareti, per un semplice motivo: la prima cosa che le persone sbagliano nell’arredare le loro case sono i quadri. Ci sono clienti che sono appassionati d’arte e magari vogliono costruire il progetto di arredo proprio intorno alle opere, ma nella maggior parte dei casi le persone non hanno una sensibilità artistica. Per un interior designer, quindi, la difficoltà consiste nel coniugare il gusto personale del cliente con la necessità di non rovinare tutto con brutte opere alle pareti.

Per questo trovo molto interessante il progetto di Cinquerosso Arte, che offre a chi fa il mio mestiere opere di qualità a prezzi compatibili con qualsiasi tasca.

Certo, vedo delle difficoltà, soprattutto perché non è semplice far capire l’arte attraverso il canale digitale, e più in generale manca una vera e propria cultura che permetta di far riconoscere il bello. Bisogna costruirla.

Silvia Lisotti

Silvia Lisotti – La fotografia è la mia seconda vita

Viaggiatrice, fotografa, appassionata, curiosa,Silvia Lisotti è arrivata all’arte non per scelta, ma perché il suo talento si è manifestato con tutta la sua prorompente evidenza.

Silvia, raccontaci di te. Come e quando hai iniziato a fotografare?

Sono una grande viaggiatrice, nel senso che ogni anno parto per due o tre viaggi importanti, da quando ero trentenne. E sono sempre stata interessata alla fotografia che mi ha permesso di documentare questi viaggi. A un certo punto, a quarant’anni, ho pensato di inviare questi reportage a riviste specializzate. E con mia grande sorpresa sono stata contattata da diverse redazioni, per cui ho iniziato a pubblicare i miei scatti. Con i nuovi guadagni mi sono regalata un reflex professionale. A quarantacinque anni mi sono detta: «Non è mai troppo tardi!», e mi sono iscritta alla Scuola Romana di Fotografia, una scuola di formazione professionale molto prestigiosa nella capitale romana, dove in 2 anni ho perfezionato gli aspetti tecnici, compresi quelli di sviluppo e stampa in pellicola BW, ma soprattutto ho approfondito la cultura della fotografia. Attualmente ho terminato gli studi on line presso la NFT Artist University di Luca Vehr.

A questo punto non era più un semplice hobby.

No, era qualcosa di molto più significativo. Ho iniziato a partecipare a diversi concorsi prestigiosi tra cui l’IPA Awards e sono stata premiata. Allora ho cominciato a crederci e mi sono detta ancora: «se arrivano questi riconoscimenti evidentemente ho un talento».

All’inizio ero affascinata dalla tecnologia (corpo macchina, obiettivi) poi mi sono resa conto  – dopo avere acquisito esperienza – che non è l’aspetto più importante: ciò che conta davvero è la visione innata, l’intuizione, l’idea, l’innovazione. Vedere, conoscere, studiare. La fotografia è una filosofia di vita, come diceva Cartier-Bresson. Compro libri di fotografia fine art, vado a mostre di arte e pittura, osservo le fotografie di tutti. Tra gli artisti che amo di più e dai quali mi sono ispirata ci sono Luigi Ghirri e Harold Feinstein, il primo per i miei scatti di Landscape minimalisti e dai colori delicati, il secondo soprattutto per gli still life con i fiori.

Da cosa è composto il tuo portfolio?

Mi sono dedicata molto alla fotografia di paesaggio e ritratto e, durante il periodo del lockdown, ho deciso di fare il salto nella fotografia di Still Life e Fine Art.

Questa, infatti, è una fotografia complessa, dove non è solo necessario padroneggiare molto bene la tecnica dello scatto e della post-produzione, ma anche cercare di trasformare il lavoro in un messaggio, in una comunicazione, in una emozione. Anche in questo caso ho studiato iscrivendomi alla Fine Art Photo Academy.

Ed ecco che, ancora una volta in modo abbastanza inaspettato, ho iniziato a fare mostre, ad esporre presso musei (Polo Museale di Lanciano, Stadio di Domiziano per la XIV Biennale d’Arte di Roma, Palazzo Velli in Trastevere con la Biennale Internazionale di Arte e Cultura della città di Roma) e gallerie in Italia e all’estero (Berlino).

E ora partecipi anche al progetto Cinquerosso Arte.

Sì. Lo sento molto affine, perché la mia fotografia è in parte destinata al mercato autoriale, ma soprattutto legata all’arredamento di interni; mi piace tradurre i miei lavori in stampe fine art e trasformarli in veri oggetti di interior design. Anche in questo caso ho ricevuto riconoscimenti che mi hanno fatto molto piacere. Per esempio il Dharma Luxury Hotel di Roma ha di recente acquistato sei delle mie opere per arredare i lussuosi corridoi. Insomma, la fotografia mi riserva grandi soddisfazioni, soprattutto considerando che non ho mai lasciato il mio lavoro in azienda e quindi non le dedico tutto il mio tempo. Ho iniziato a occuparmi di fotografia da adulta e la pratico in parallelo con altro, posso dire insomma che è la mia seconda vita.

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