Architetto, ma anche scenografo e designer, Maurizio Lai dà ai suoi progetti un’impronta distintiva basata su complesse geometrie, in cui ha un grande ruolo la luce. E forse ora è pronto per nuove sperimentazioni.
Maurizio, ci racconti la sua storia.
Il mio è stato un percorso piuttosto articolato e fuori dal comune. Ho iniziato a lavorare a vent’anni, mentre ancora studiavo, perché avevo deciso di trasferirmi da Venezia a Milano e dovevo mantenermi da solo. Ero convinto che Milano mi avrebbe offerto più stimoli e opportunità, ma pensavo di restarci solo pochi mesi. La consideravo una tappa provvisoria. Ecco, dopo quarant’anni mi sento ancora… provvisorio!
Il mio primo impiego consisteva nel cambiare rullini nello studio di un fotografo di moda. Poco dopo, trovai un lavoro simile presso un altro fotografo, Franco Trinchinetti, che all’epoca deteneva quasi il monopolio delle immagini per i cataloghi degli hairstylist. Fu lì che colsi la mia prima vera occasione di mettermi in gioco: mi coinvolse a disegnare volti di personaggi famosi, accompagnandoli con acconciature immaginate o rielaborate, utili alla realizzazione di un primo libro di acconciature disegnate. Un giorno, un po’ per scherzo, inserii anche il mio autoritratto tra quelli delle celebrità. Mi aspettavo una reazione negativa, invece Franco non solo non si arrabbiò, ma volle aggiungere il mio nome tra quelli di Michael Jackson e Marlon Brando! Ero incredulo. Lui mi disse: «Vedi, adesso questo libro farà il giro del mondo e tutti penseranno che anche tu sia un personaggio conosciuto. È così che funziona la pubblicità!». Quell’uomo è tuttora una figura di riferimento per me. Ha seguito con affetto e partecipazione tutte le fasi della mia carriera, incoraggiandomi nei successi e sostenendomi anche negli insuccessi.
Come è arrivato dal “cambiare rullini” a strutturare uno studio di architettura noto a livello internazionale?
Un po’ per caso, un po’ per la capacità – o forse il coraggio – di cogliere le occasioni che via via mi si presentavano. In quegli anni a Milano lavoravo, studiavo e frequentavo un gruppo di giovani artisti. Un giorno, un imprenditore cinese mi affidò l’incarico di realizzare le scenografie per un locale che aveva appena aperto, dove il sabato sera si faceva cabaret. Così coinvolsi alcuni di questi amici e iniziammo a lavorare a questo progetto, in un’atmosfera vivace e piena di energia. Su quel palco si esibivano artisti che sarebbero poi diventati volti noti della comicità italiana: I Fichi d’India, Maurizio Milani, Pino Campagna e molti altri. Poi, un giorno, su un treno, iniziai casualmente a dialogare con due autori televisivi. Uno di loro era Adriano Bonfanti, un autore molto noto nella televisione. Raccontai una “mezza verità”, dicendo che lavoravo per il teatro. Mi chiesero il numero di telefono.
Un mese dopo, inaspettatamente, mi arrivò una telefonata: cercavano qualcuno per realizzare le scenografie della puntata zero di un nuovo programma,Naturalmente bella, con Daniela Rosati. La situazione era delicata: la conduttrice aveva aspettative molto alte, e io – essendo un volto nuovo – ero considerato “un salto nel buio”. Invece io e lei ci intendemmo subito, e da lì cominciò la mia carriera di scenografo televisivo. Lavorai a lungo in quel settore. Ma a un certo punto sentii il bisogno di un cambiamento più profondo.
Decisi di dare una svolta alla mia vita professionale e di dedicarmi completamente all’architettura. L’architettura, in fondo, non è mai stata un ripiego o una deviazione. Era qualcosa che mi portavo dentro da sempre, anche se per molto tempo l’ho vissuta in modo laterale, quasi inconsapevole. Ogni volta che disegnavo una scenografia, che organizzavo uno spazio teatrale o televisivo, in realtà stavo già pensando come un architetto: lavoravo con la luce, con i volumi, con i percorsi, con la relazione tra le persone e l’ambiente.
A un certo punto ho sentito che era il momento di fare un passo avanti, di passare da una scena effimera a qualcosa di più permanente, di più concreto. Volevo progettare spazi che potessero restare nel tempo, che potessero essere vissuti, abitati, trasformati. Non è stato un salto nel vuoto, ma piuttosto un’evoluzione naturale. Ho messo insieme le competenze tecniche maturate con gli studi, l’esperienza visiva e scenografica accumulata in anni di lavoro, e la capacità di ascoltare e interpretare i desideri delle persone.
Così è nato il mio studio, che negli anni è cresciuto, ha cambiato forma, fino a ottenere una riconoscibilità anche a livello internazionale. Eppure, anche oggi, in ogni progetto continuo a vedere quel filo invisibile che lega tutto: la grafica, il disegno, il teatro, la fotografia. Sono linguaggi diversi, ma tutti parlano di spazio, di identità, di racconto. E forse è proprio questa la mia cifra: non costruisco solo edifici, cerco di dare forma a storie.
In effetti il suo stile architettonico è molto scenografico.
Nel tempo ho sviluppato uno stile piuttosto preciso, riconoscibile. Anche per questo mi trovo particolarmente bene a collaborare con clienti cinesi: sono interlocutori attenti, concreti, e non hanno la presunzione di imporre le proprie idee. Si affidano, e questo crea le condizioni per un vero dialogo progettuale. Negli anni ho portato avanti progetti d’interni in ambiti molto diversi, cercando sempre di mantenere coerenza estetica e rigore funzionale. Tra i lavori a cui sono più legato c’è la progettazione della prima scuola professionale europea dedicata a persone con sindrome di Asperger: un’esperienza che mi ha profondamente arricchito e mi ha fatto riflettere sul valore dell’architettura come strumento di inclusione. Più di recente, mi sono concentrato molto sul settore dell’hôtellerie e della ristorazione, ambiti in cui la cura dello spazio influisce direttamente sull’esperienza delle persone. L’architettura diventa qui un linguaggio sensoriale: accoglienza, atmosfera, equilibrio tra funzionalità e bellezza.
Oggi il mio studio è cresciuto e conta numerosi collaboratori. Mi piace pensarlo come una bottega rinascimentale: io do l’impronta artistica, la visione, e ho la responsabilità complessiva dei progetti. È un lavoro che richiede dedizione assoluta, attenzione costante, spesso con tempistiche serrate, quasi proibitive. Ogni giorno cerco di bilanciare il ruolo del manager con quello dell’artista. E non è sempre facile, ma è proprio in quella tensione che nasce il progetto.
Che ruolo ha l’arte figurativa nel suo lavoro e che cosa pensa di Cinquerosso Arte?
Ho conosciuto Cinquerosso Arte durante una manifestazione, e da subito l’ho definita un’avventura. Un’avventura stimolante, in cui gli interlocutori principali sono proprio gli architetti, chiamati a fare da tramite tra l’artista e il cliente finale. La vera difficoltà, però, sta nel fatto che – soprattutto quando si parla di interior design – l’arte è spesso ridotta a un elemento decorativo, anziché essere riconosciuta per il suo valore intrinseco, culturale ed espressivo.
Questo rappresenta un limite con cui mi confronto spesso. Nel mio lavoro, come dicevo, lo stile è molto definito, quasi un linguaggio formale che si ripete e si rinnova. Le mie architetture sono, in un certo senso, quadri tridimensionali. Ogni elemento è parte di un disegno più grande, di un equilibrio geometrico preciso, in cui nulla è lasciato al caso. Per questo tendo a occuparmi personalmente di ogni dettaglio. Mi capita spesso, per esempio, di disegnare anche le lampade: devono integrarsi perfettamente nel contesto, contribuire a costruire quell’atmosfera visiva e sensoriale che fa parte della mia idea di progetto. È anche per questo che, fino a oggi, non c’è mai stato molto spazio per collaborazioni artistiche nel senso tradizionale del termine. Il mio principale collaboratore, in fondo, è sempre stato il cliente: è da lui che parte tutto, dalle sue esigenze prende forma il perimetro del progetto, ed è in quel dialogo che nasce ogni architettura. Dico “finora”, perché forse è arrivato il momento di cambiare.
Come la mia storia dimostra, la mia carriera ha preso spesso direzioni inaspettate, e forse adesso sono pronto per aprirmi a un nuovo modo di operare, magari creando sinergie con altre figure.