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Mauro Sini fotografia

Mauro Sini – Fotografare per delimitare il vuoto

27 - 03 - 2023

Appassionato di architettura, Mauro Sini ricerca anche nella fotografia linee essenziali, forme nette e precise. È uno studio sullo spazio, da esplorare assecondando il proprio ritmo interiore.

Mauro, come sei approdato alla fotografia?

Ci sono arrivato relativamente tardi, a 34 anni. In precedenza, essendo molto attratto dall’architettura, avevo iniziato un percorso di studi universitario che ho poi abbandonato. Quello per la fotografia è un amore sbocciato da bambino, quando ho avuto la fortuna di ritrovarmi tra le mani una vecchissima macchina fotografica dei primi del Novecento, che mi ha aperto un mondo. Poi quell’amore è stato lasciato e ripreso fino a quando, all’età di 34 anni, ho deciso che da grande volevo fare il fotografo. In questo passaggio sono stato aiutato dai miei due maestri; uno è Flavio Renzetti, scultore e pittore, l’altro è Massimo Costoli, fotografo. Massimo, in particolare, mi ha aperto la mente e ha cambiato il mio modo di pensare e vedere fotograficamente. Insomma, grazie a lui ho scoperto chi è il Mauro Sini fotografo. Da allora ho iniziato una carriera come fotografo di abbigliamento e di interni, e parallelamente porto avanti la mia ricerca artistica.

L’architettura è rimasta nella tua vita, visto che i tuoi soggetti sono spesso edifici.

Sì, la fotografia di architettura è per me quasi una necessità, perché ricerco linee, pulizia. Spesso escludo volontariamente la figura umana, se non ha un senso nel contesto che sto fotografando. Il mio è un amore per lo studio dello spazio, che del resto è la stessa cosa che mi ha sempre affascinato nell’architettura. Quello che faccio nelle mie fotografie è tentare di delimitare il vuoto, ritagliare spazi all’interno di un vuoto attraverso il mio personalissimo punto di vista.

Poi ci possono essere progetti particolari come Mitoraj, che ho realizzato a Pompei, dove c’è la figura umana ma nella forma sublimata delle statue.

In ogni caso la mia creatività si esprime così, nel togliere più che inserire qualcosa nel frame del fotogramma. Anche nei paesaggi, in effetti, ricerco linee ed essenzialità.

Usi anche il colore o preferisci il bianco e nero?

Uso il colore solo quando il bianco e nero non valorizza l’immagine. E se nel bianco e nero sfrutto i contrasti, i colori sono sempre piuttosto scuri perché tendo a spegnerli. Insomma, nelle mie fotografie il colore c’è raramente, e quando c’è è comunque denso, mai brillante.

Del resto le fotografie che scatto per lavoro sono sempre a colori, e spesso a tinte molto vivide. In un certo senso il bianco e nero è la mia nicchia, il mio rifugio, dove tutto funziona come voglio e che riesco a leggere al mio ritmo.

Qual è il tuo metodo? Procedi seguendo un piano o ti lasci guidare dall’ispirazione?

A parte alcuni progetti specifici come Mitoraj, mi lascio guidare da quello che vedo. A volte vado a cercare dei luoghi che mi incuriosiscono. Fotografo quello che vedo, e avendo sempre viaggiato per lavoro mi ritrovo spesso in posti che offrono ispirazione e in cui magari ritorno per scattare con calma. Adesso per esempio sto lavorando a fotografie di archeologia industriale realizzate in un rudere dell’Argentario, dove ho intenzione di tornare per fotografare gli stessi luoghi in diverse ore della giornata. Questo è un progetto piuttosto strutturato, ma spesso i miei scatti sono casuali: passeggio e vengo colpito dalla proiezione di un’ombra, da un riflesso o dalla luce che attraversa una finestra.

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