Dallo studio dei materiali al metaverso, dalla filosofia Wabi-Sabi all’estetica del Movimento moderno, Emanuele Svetti lavora per realizzare sogni, avendo come centro di gravità l’uomo.
Ci può raccontare il suo approccio all’architettura?
Non posso che partire dall’amore per il mio lavoro.
Amo instaurare relazioni con le persone, delle quali devo interpretare aspettative, sogni… E amo fare ricerca, viaggiare, esplorare e sperimentare – per esempio – nuovi tagli, texture, materiali, e rivedere anche materiali tradizionali per interpretarli in chiave moderna. Mi piace molto armonizzare gli ambienti, i colori…
Il tratto comune a tutti i miei progetti è che al centro c’è stato, c’è e ci sarà sempre l’uomo. È l’uomo che fa lo spazio, lo utilizza, ed è il primo referente nel momento in cui si inizia a progettare. A seconda dei lavori, può essere il padrone di casa, un ospite, un cliente, e oggi anche un influencer, nel senso che ha uno strumento di una potenza comunicativa devastante: parlo dei social e del riscontro dal punto di vista digitale.
Ma è sempre da lì che parto. Dall’uomo.
In questi vent’anni di carriera, il fatto di poter viaggiare è stato molto importante per me: ho lavorato negli Stati Uniti, in particolare nella West Coast, nel Nord Africa, negli Emirati, in Spagna, Francia, Germania, Russia, Cina, e chiaramente in tutta Italia.
Il viaggio rimane la fonte di ispirazione principale, sia a livello lavorativo, sia per la mia crescita personale, mi aiuta a riempire i contenitori cerebrali che come tutti ho a disposizione, e che cerco quotidianamente di arricchire di nuova sostanza, come si fa nella floricoltura e nella cura degli orti.
Per questo dico spesso: ogni mio progetto è un viaggio, come ogni viaggio è un progetto. È il modo in cui cerco di far comprendere anche il “melting pot” emozionale suscitato dall’incontro con realtà che mi piace definire aliene, perché meno conosciute, ma che aiutano a contaminare il flusso mentale e rendere più sofisticato l’atto progettuale.
Come sono iniziati questi vent’anni di carriera?
Durante gli studi universitari a Firenze, ho avuto la fortuna di avere tra i miei mentori Roberto Segoni, un maestro del Design. Professionalmente sono poi cresciuto nel mondo del contract con Gianluca Colombo e la famiglia Del Tongo. Nel 2005 abbiamo creato dal nulla la divisione contract Del Tongo, e sono stato loro consulente fino al 2010, portando insieme a tutto il team il fatturato da zero a punte anche di 30 milioni di euro. In quel periodo ho sviluppato una mentalità da “progettista-falegname”, che mi trascino dietro anche oggi. Raramente un architetto ce l’ha, ma invece è indispensabile per avere un’attenzione del dettaglio come quella che pretendo io da ogni mia realizzazione.
Quando inizio un progetto mi sento spesso molto vicino a Walt Disney e al suo più famoso motto: “Se puoi sognarlo, puoi farlo”. Ma per trasformare un sogno in qualcosa di concreto bisogna saper cercare un equilibrio e quindi aggiungere una componente fondamentale quale può essere la sostenibilità, da intendere non solo in termini di ecologia e rispetto ambientale, ma anche e soprattutto in termini economici.
Facendo un salto nuovamente al periodo di accademico, nella mia formazione c’è stato un episodio che ha segnato per sempre il mio modo di approcciarmi all’architettura: durante una giornata in biblioteca sono rimasto letteralmente folgorato dalle geometrie e dalle strutture quasi fluttuanti di Richard Neutra e dalla sua grande attenzione nel definire le reali esigenze dei clienti. Diventando da subito uno dei capisaldi del mio lavoro. Non parto mai senza avere prima ascoltato il cliente e aver cercato di interpretare il suo desiderio, non mi piace l’autoreferenzialità. Questo vale per il macro come per il micro progetto, dal building all’oggetto.
Le capita di lavorare insieme ad artisti o di inserire opere d’arte nei suoi progetti?
Assolutamente sì. Per me non esiste un progetto che non contempli un legame tra l’espressione artistica dell’architetto (che consiste nel trasformare i sogni in volumi reali), e contaminazioni artistiche già in fase di concept, fino ad arrivare a materiali e texture che possano magari essere ispirati dalle opere.
L’arte la cerco e la ritrovo anche nella dimensione del viaggio, dove non manco di visitare musei, mostre o gallerie, cercando di partecipare ad eventi quali ed esempio la Biennale, Art Basel, Arte in Fiera e molte altre. Ho amici galleristi e mi piace collezionare opere perché fondamentalmente sono interessato a tutto ciò che rappresenta la bellezza, che non è un canone, ma una sorta di illuminazione. Sono affascinato dalla cultura Wabi-Sabi, per cui la bellezza è una manifestazione del mondo in quel momento lì, al di fuori di ogni logica.
Come ha conosciuto Cinquerosso Arte e cosa ne pensa?
Ci siamo incontrati più di una volta, virtualmente, e poi fisicamente per la prima volta con Francesca al Fuorisalone di quest’anno. Abbiamo così potuto capire meglio come poter esserci reciprocamente di aiuto.
Da circa un paio d’anni sto lavorando a un progetto che si chiama SUIT-E Hotel nel Metaverso, cioè un luogo non fisico che celebra la resa estetico-artistica di un prodotto digitale, e in quella occasione ne abbiamo parlato scambiandoci reciproche opinioni.
Ora stiamo collaborando per un progetto di un hotel a Milano, dove vorremmo proporre – per le camere – le opere fotografiche di Franco Covi, nell’intento di offrire al cliente un’esperienza immersiva ed armonica sulla proporzione e l’eleganza del corpo femminile.