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opere in tecnica mista collage su sfondo colorato

Erika Garbin – L’arte è per me terapeutica

Erika è riuscita a coniugare due grandi passioni – l’arte e l’amore per gli altri – occupandosi di arteterapia. Il suo è un mondo complesso e profondo, perché la sua arte indaga e mette in discussione gli schemi mentali in cui tutti in qualche misura rischiamo di restare intrappolati.

Erika, parlaci della tua storia.

Il mio battesimo nel mondo dell’arte risale a quando ero piccolissima. Avevo infatti uno zio che dipingeva e mi portava spesso con sé. Mi piaceva tantissimo andare in giro con lui e i suoi acquarelli per vederlo dipingere. Per questo ho sempre avuto le idee chiare: volevo frequentare il liceo artistico e poi l’Accademia di belle arti e così è stato. Purtroppo non è facile mantenersi con questo tipo di formazione, ma ho seguito un’altra passione e ho iniziato a lavorare nel sociale. Ho trovato lavoro in una comunità psichiatrica come operatore, mi hanno dato la possibilità di fare attività di pittura e così ho iniziato a studiare arteterapia. Da allora ho sempre associato l’arte alla disabilità e alla psichiatria, in tutti i settori e con persone di ogni età. Attualmente lavoro in un Centro medico polifunzionale e tengo laboratori creativi in una piccola scuola frequentata da ragazzi con disabilità importanti, tra cui l’autismo.

Che cosa accade nella vita di questi ragazzi quando incontrano l’arte?

Il primo beneficio è l’effetto rilassante. In genere i ragazzi hanno bisogno di trovare un ambiente che li tranquillizzi, dove possano concentrarsi. Riuscire a far stare un ragazzo in un’aula, diminuire i vocalizzi, evitare che gironzoli a vuoto e ridurre l’aggressività sono risultati molto importanti. Quando dipingono si rilassano, mentalmente e fisicamente. Per me i loro disegni sono vere e proprie opere d’arte e tante volte prendo spunto da quello che fanno. Le persone neurodivergenti hanno una libertà espressiva che noi non abbiamo, e questo può essere fonte di ispirazione. Per me è stato importante confrontarmi con loro, perché quando ho ripreso a “produrre” arte, dopo l’Accademia, avevo un po’ perso la mano con il disegno: così ho iniziato con il collage, una tecnica che uso molto con i miei ragazzi e che ho via via approfondito per le mie opere.

Ci sono temi ricorrenti nelle tue opere?

Da un po’ di anni lavoro sul concetto di “femminile”, in modo un po’ provocatorio. Nei collage, per esempio, ricorrono spesso queste figure di donne un po’ patinate e stereotipate che arrivano da riviste degli anni Sessanta, dove si spiegava come stirare, come cucinare eccetera. Da lì ho proseguito stampando su cartamodelli e realizzando lavori con ago e filo: mi sono messa insomma a rammendare immagini e oggetti.

Che cosa c’è dietro questo tuo rammendare?

Ecco, non mi è stato subito chiaro ma credo che sia un po’ come riparare una ferita. Questa dimensione familiare stereotipata, dove c’è la donna con tutti i suoi compiti ben definiti e ripetitivi, è per me qualcosa che richiede un intervento. Anche questo per me è terapeutico. L’opera la chiamo “prodotto”, perché è la testimonianza di qualcosa che è accaduto, di un atto che ha avuto un effetto su di me e che ha lasciato bei segni. 

Cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Credo che sia una bella iniziativa. Ho visto un’attenzione, una cura particolare e mi dispiace di poter partecipare poco ai diversi incontri tra i collaboratori. Comunque ho già pronti dei lavori che vorrei inviare, per cui spero che presto ne vedrete di nuovi.

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