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Giuseppe Barilaro crea per distruggere. Intervista dell'artista

Giuseppe Barilaro – Voglio lasciare tracce di vissuto

Giuseppe Barilaro crea per distruggere, produce forme che poi lacera, perché quello che gli preme è esprimere il qui e ora dell’azione artistica. E si dice perfettamente felice quando un suo quadro viene lungamente discusso.

Giuseppe, qual è stato il tuo percorso fin qui?

Ho studiato all’Accademia di Belle arti di Catanzaro e mi sono laureato in Decorazione e Decorazione per arti sacre. Il seguito è arrivato in modo del tutto spontaneo; ho iniziato a dipingere in modo accademico, ma ben presto ho perso interesse e sono passato a studiare psicologia. Più tardi ho cominciato a frequentare gli obitori di Catanzaro assistendo a sessioni mediche, e lì mi sono innamorato del corpo umano con le sue patologie.

A un certo punto ho cercato di riversare tutto questo nell’arte. Parto dalle tecniche classiche, ovvero pittura a olio, acrilico, tempera, e soprattutto la composizione ortodossa, che comprende colore e forma, e dipingo in modo iperreale, dopodiché distruggo letteralmente il quadro con la combustione e vado a lacerare tutte le forme che avevo creato in precedenza.

Voglio che la pittura emerga da sola, in quello che rimane dopo la combustione. A questa pratica ho dato il nome di una patologia, la prosopagnosia:  l’individuo non riconosce il volto del soggetto e lo vede in modo diverso, oscurato, frammentato.

Come mai questa scelta?

Nella mia personale filosofia, il volto è l’unica parte vergine dell’essere umano. In una persona, il volto è ciò che è leggibile da tutti ed è sempre soggetto a giudizio.

Dopo aver distrutto il volto, utilizzo una “lava rossa”, il colore viene versato sul supporto e con la fiamma viene letteralmente bruciato, successivamente viene lacerato con la lama di un taglierino. La mia è un’azione artistica che ricorda quello che avviene in sala operatoria. Bruciando il colore, lo faccio addensare e poi lo taglio con il bisturi. Questa pelle rossa lacerata è un’esplosione da cui emergono altri colori.

Queste lacerazioni rimandano anche alla terra, ai solchi che vengono tracciati per le coltivazioni, tanto che ho creato una collezione di 15 quadri che ho chiamato “Tra l’aratro e la terra incolta”.

Che cosa ti spinge a dipingere?

Voglio lasciare tracce tangibili, nette e cattive. Sono convinto che l’arte debba cambiare alcuni codici. Le mie lacerazioni sono tracce di vissuto, che tengono conto di quello che succede nel mondo: quello che vedo è un’immensa distruzione, un po’ alla Schopenhauer. Mi affascina l’idea che nelle mie opere rimanga ben poco del soggetto. Che ci sia un matrimonio tra il soggetto stesso e l’atto distruttivo, qualcosa che – nella nicchia di un quadro – testimoni il fatto che “lì” è avvenuto qualcosa. Come per i solchi di cui parlavo prima, in cui c’è uno sposalizio e la terra attende l’acqua per germogliare.

L’arte per me deve abbandonare la retorica, non deve dire nulla, ma trovare il tempo esatto nel luogo giusto.

Normalmente si parla degli artisti come persone creative. Tu ti definisci più creativo o distruttivo?

Devo dire che a me non piacciono molto le parole “artista” e “creatività”. Preferisco essere in quel luogo con quell’oggetto, per qualcosa che sta per avvenire. Potrei definirmi alchimista, anche se è una parola piuttosto abusata. Se proprio devo definirmi, preferisco dire che sono un pittore. Quello che mi dà soddisfazione è sapere che un mio quadro ha trovato la giusta collocazione, ha trovato casa, magari in un contesto che non avevo previsto. Questo mi affascina dell’arte.

Quindi come immagini una tua opera in un’abitazione o in un albergo, per esempio?

È proprio quello che mi piace, perché vorrei che i miei quadri fossero difesi e discussi. Vorrei che le persone non si limitassero a guardarli. Per questo preferisco che vengano comprati da chi ha poche potenzialità economiche. Se un mio quadro viene acquistato da un collezionista finirà insieme ad altri quadri come oggetto da collezione, appunto. Invece a me affascina l’idea che un mio quadro sia lì davanti agli occhi mentre le persone sono a tavola, e diventi oggetto di discussione. Vorrei che portasse emozioni, sentimenti e quindi anche bisogno di parlare e condividere. In tutto questo, l’artista deve rimanere dietro le quinte, lasciando la scena al quadro stesso.

Che cosa pensi di Cinquerosso Arte?

È una meraviglia! Sono veramente innamorato delle persone che fanno parte del progetto e della loro produzione. E poi il clima che si respira è di grande affetto: quando sono stato a Bologna ho fatto il pieno di sorrisi.

Scopri le opere di Giuseppe Barilaro!

opere in tecnica mista collage su sfondo colorato

Erika Garbin – L’arte è per me terapeutica

Erika è riuscita a coniugare due grandi passioni – l’arte e l’amore per gli altri – occupandosi di arteterapia. Il suo è un mondo complesso e profondo, perché la sua arte indaga e mette in discussione gli schemi mentali in cui tutti in qualche misura rischiamo di restare intrappolati.

Erika, parlaci della tua storia.

Il mio battesimo nel mondo dell’arte risale a quando ero piccolissima. Avevo infatti uno zio che dipingeva e mi portava spesso con sé. Mi piaceva tantissimo andare in giro con lui e i suoi acquarelli per vederlo dipingere. Per questo ho sempre avuto le idee chiare: volevo frequentare il liceo artistico e poi l’Accademia di belle arti e così è stato. Purtroppo non è facile mantenersi con questo tipo di formazione, ma ho seguito un’altra passione e ho iniziato a lavorare nel sociale. Ho trovato lavoro in una comunità psichiatrica come operatore, mi hanno dato la possibilità di fare attività di pittura e così ho iniziato a studiare arteterapia. Da allora ho sempre associato l’arte alla disabilità e alla psichiatria, in tutti i settori e con persone di ogni età. Attualmente lavoro in un Centro medico polifunzionale e tengo laboratori creativi in una piccola scuola frequentata da ragazzi con disabilità importanti, tra cui l’autismo.

Che cosa accade nella vita di questi ragazzi quando incontrano l’arte?

Il primo beneficio è l’effetto rilassante. In genere i ragazzi hanno bisogno di trovare un ambiente che li tranquillizzi, dove possano concentrarsi. Riuscire a far stare un ragazzo in un’aula, diminuire i vocalizzi, evitare che gironzoli a vuoto e ridurre l’aggressività sono risultati molto importanti. Quando dipingono si rilassano, mentalmente e fisicamente. Per me i loro disegni sono vere e proprie opere d’arte e tante volte prendo spunto da quello che fanno. Le persone neurodivergenti hanno una libertà espressiva che noi non abbiamo, e questo può essere fonte di ispirazione. Per me è stato importante confrontarmi con loro, perché quando ho ripreso a “produrre” arte, dopo l’Accademia, avevo un po’ perso la mano con il disegno: così ho iniziato con il collage, una tecnica che uso molto con i miei ragazzi e che ho via via approfondito per le mie opere.

Ci sono temi ricorrenti nelle tue opere?

Da un po’ di anni lavoro sul concetto di “femminile”, in modo un po’ provocatorio. Nei collage, per esempio, ricorrono spesso queste figure di donne un po’ patinate e stereotipate che arrivano da riviste degli anni Sessanta, dove si spiegava come stirare, come cucinare eccetera. Da lì ho proseguito stampando su cartamodelli e realizzando lavori con ago e filo: mi sono messa insomma a rammendare immagini e oggetti.

Che cosa c’è dietro questo tuo rammendare?

Ecco, non mi è stato subito chiaro ma credo che sia un po’ come riparare una ferita. Questa dimensione familiare stereotipata, dove c’è la donna con tutti i suoi compiti ben definiti e ripetitivi, è per me qualcosa che richiede un intervento. Anche questo per me è terapeutico. L’opera la chiamo “prodotto”, perché è la testimonianza di qualcosa che è accaduto, di un atto che ha avuto un effetto su di me e che ha lasciato bei segni. 

Cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Credo che sia una bella iniziativa. Ho visto un’attenzione, una cura particolare e mi dispiace di poter partecipare poco ai diversi incontri tra i collaboratori. Comunque ho già pronti dei lavori che vorrei inviare, per cui spero che presto ne vedrete di nuovi.

Scopri le opere di Erika Garbin!

Rocco Casaluci – Il mio è un allenamento al guardare

Figlio e fratello di fotografi, Rocco Casaluci ha sempre vissuto tra pellicole, obiettivi e carta fotografica, ma anche tra palcoscenici e stradine di campagna, con lo sguardo limpido e acuto dell’osservatore.

Rocco, parlaci di te.

Sono nato in Salento e, dopo una parentesi veronese durante la quale ho lavorato come apprendista nello studio di uno dei miei fratelli, ho vissuto gran parte della mia vita a Bologna. La mia formazione tecnica è poi proseguita lavorando per diverse gallerie d’arte, nella riproduzione di opere e creazione di cataloghi. Parallelamente ho sempre portato avanti una grande passione per il teatro, e per gli strani casi della vita sono riuscito a conciliare le due cose diventando fotografo ufficiale del Teatro Comunale di Bologna, dal 2007 sino al 2021.

Tra tutti gli aspetti del lavoro di un fotografo, quello che ho sempre amato di più è il momento della stampa. Come sappiamo, per tutto il Novecento e fino all’avvento del digitale la figura del fotografo era molto diversa da quella di oggi: si lavorava in camera oscura e ci volevano strumenti, materiali e capacità che non erano alla portata di tutti. 

La tua professione ha influito sul tuo sentire di artista?

Sì, il teatro mi ha permesso di “unire i puntini”. La fotografia di scena non è interpretativa, nel senso che bisogna rispettare il lavoro di tutti e valorizzare lo spirito dell’opera, ed è molto tecnica. Questo mi ha portato ad assumere il ruolo di osservatore privilegiato, perché lavoravo durante le prove, a stretto contatto con registi e attori. Inoltre, questa professione mi ha addestrato all’attesa. Assistevo alla nascita dello spettacolo, e si trattava proprio di aspettare il momento giusto, quello decisivo. Del resto io venivo dalla scuola dell’analogico, che era già fatta di tempi lenti e di attese: il tempo dello scatto, quello dello sviluppo, della selezione, della stampa ed eventualmente del ritocco. Come dice l’etimologia stessa, la fotografia è un descrivere con la luce.

E oggi cos’è?

Oggi tutto avviene a ritmo di corsa, in una sorta di bulimia di immagini. A me invece piace la fotografia che permette di osservare i dettagli. In una scena, per esempio, non mi interessa solo il focus principale, ma anche quello che c’è intorno. Le tende di pizzo di Sangallo, il signore in un angolo che legge il giornale, una fotografia che – come la vita – è più bella se è presente nel qui e ora.

La tua fotografia è cambiata nel tempo?

Sì, è andata asciugandosi fino ad arrivare al progetto che ho presentato a Cinquerosso Arte: Sponte plantis. Come dicevo, ho sempre amato il bianco e nero e in questo progetto lo applico all’estremo, sottraendo colore a fiori e piante, disposte su uno sfondo neutro. Quello che cerco di fare con la mia fotografia è un allenamento al guardare, non solo al vedere; qualcosa per cui bisogna andare oltre l’occhio come organo della vista ma passare all’organo della mente. Utilizzo un obiettivo macro per cogliere ogni dettaglio e indurre lo spettatore a soffermarsi, ad avvicinarsi per osservare da vicino. Scelgo piante spontanee, umili, che passano inosservate anche per effetto della velocità con cui ci muoviamo, e le tratto come se fossero persone, come se facessi un ritratto della pianta. Lavoro molto in studio, ma ci sono casi in cui invece è meglio andare sul campo per poter catturare un particolare momento, per esempio la schiusa dei petali. La natura è veramente incredibile, con le sue geometrie e le sue architetture, e non finisce mai di sorprendere.

Come ti trovi nel team di Cinquerosso Arte?

Sono contento e grato di essere stato coinvolto, perché condivido molto l’idea di un’arte alla portata di tutti gli amanti del bello, non solo di chi è più facoltoso. Io stesso amo trasformare le mie opere in piccoli oggetti da regalare alle persone a cui tengo. L’arte così è un gesto d’amore.

Scopri le opere di Rocco Casaluci!

Cinquerosso Arte al SIA, Salone internazionale dell’accoglienza Pad D5, Stand 085

Dall’11 al 13 ottobre, Cinquerosso Arte sarà presente con un proprio stand al SIA Hospitality Design di Rimini, una delle principali vetrine italiane per il settore alberghiero e in generale per le strutture ricettive. Il SIA Hospitality Design è entrato a far parte di InOut|The Contract Community, e si svolgerà in contemporanea con TTG Travel Experience. Sarà quindi un enorme evento dedicato a ospitalità e turismo, settori in cui l’Italia ha tanto da offrire.

Cinquerosso Arte esporrà la sua ampia selezione di opere d’arte portandola all’attenzione di architetti, contractor, proprietari di hotel e decision maker di strutture ricettive, ovvero a tutti coloro che possono essere interessati a migliorare l’esperienza dell’ospite con l’arte di qualità.

I principali interlocutori di Cinquerosso Arte sono infatti gli operatori del mondo dell’hôtellerie: è in questo ambito, del resto, che risulta utile poter scegliere tra tante opere d’arte – con diversi stili, tecniche, gamme cromatiche, formati – potendo contare sempre sul valore intrinseco dell’opera e sulla grande cura della stampa fine art, nel rispetto dei budget.

Il SIA, Salone internazionale dell’accoglienza, è una delle più importanti fiere dedicate ad alberghi, campeggi e glamping del nostro paese, dove convergono ogni anno operatori del settore di tutto il mondo. L’edizione 2023 sarà particolarmente ricca e permetterà di esplorare ogni aspetto dell’ospitalità, spaziando dall’interior design alle applicazioni per self check, dai servizi per gli alberghi alla fornitura di prodotti, dalle tecnologie audio e video all’arredo outdoor.

Per Cinquerosso Arte, nato nella primavera del 2022, si tratta della prima presenza ufficiale a questo prestigioso evento che attrae professionalità e visitatori da ogni continente. Presso lo stand 085, Pad D5, si potrà visionare una carrellata degli oltre 40 artisti che collaborano con la piattaforma di e-commerce, e si avrà l’occasione di approfondire dal vivo il servizio di consulenza B2B.

Arrivederci a Rimini!

Giulio Brandelli un'arte spontanea

Giulio Brandelli – Disegno gli spettatori invisibili della mia vita

Musicista e creativo a tutto tondo, Giulio richiama nelle sue opere gli amici immaginari dell’infanzia per averli sempre accanto. La sua è un’arte spontanea e ardente, gioiosa ma anche profonda.

Parlaci della tua formazione artistica.

Ho un talento innato per il disegno, che è venuto fuori fin da piccolissimo. Capitava spesso che, alle elementari, i maestri pensassero che i miei disegni in realtà fossero fatti da un adulto. Però non ho avuto una vera e propria formazione perché i miei genitori hanno preferito per me altre strade. Ho frequentato ragioneria invece che il liceo artistico, ma per compensare e nutrire il mio lato creativo ho studiato tromba al conservatorio. Sono anche musicista, quindi, e suono tuttora. Con il covid ho ripreso a dipingere con più assiduità, cambiando radicalmente stile. Prima il mio era un disegno realistico e i miei soggetti erano corpi di donne, oppure volti. A un certo punto ho iniziato a sentire come troppo restrittive le regole del ritratto e del realismo in generale. Allora sono tornato alle origini, a quello che amavo fare da bambino.

Le tue bizzarre creature…

Già da piccolo combinavo corpi umani e animali per creare figure antropomorfe, e ho ripreso a fare qualcosa di simile. Come dice una mia amica, sono gli amici immaginari dell’infanzia che abitavano sotto il letto, e adesso li ho tirati fuori. Li chiamo “disegnini” o “mostrini”, e all’apparenza sembrano solo buffe creature. In realtà dietro c’è qualcosa di più profondo: sono gli spettatori invisibili della mia vita, osservano in silenzio e divertiti quello che faccio e che mi accade. Ho appena vissuto un’esperienza molto difficile in famiglia, un’esperienza che mi ha fatto provare tanta paura e mi ha portato a riflettere su che cosa sia davvero importante nella vita. Nelle mie opere c’è anche questo.

Quali tecniche usi?

Diverse tecniche, mi piace cambiare e ho una buona manualità, per cui riesco a fare tante cose, che sia cucinare o scolpire il legno o fare l’uncinetto. All’inizio erano solo acquerelli, poi sono passato a una tecnica mista. Uso fogli di carta acquerellabile molto spessi, su cui preparo una base mischiando acquerelli, inchiostri, pennarelli, penne, matite. Di solito parto da un’idea, un concetto (per esempio, la sensazione di non avere mai abbastanza tempo, che è qualcosa che sperimentiamo tutti), a quel punto mi vengono in mente le figure e mi lascio guidare dalle loro forme.

Se dovessi associare la tua arte a un genere musicale, quale sarebbe?

Io suono in una street band, e credo che rispecchi perfettamente la mia arte. Dentro c’è un po’ di astrattismo, un po’ di cubismo, c’è lo stile dei murales… Qualcosa di vitale e comunicativo.

Che cosa pensi di Cinquerosso Arte?

Ho aderito subito con grande entusiasmo perché credo abbia molto potenziale. Mi è piaciuto tantissimo incontrare gli altri artisti, anche perché è qualcosa che non accade di frequente. Da musicista ci sono molte più occasioni per conoscere e confrontarsi, mentre il mondo dell’arte è un po’ più chiuso e ci sono meno possibilità di contatto. In Cinquerosso Arte ho visto un gruppo affiatato e ben impostato, e mi auguro davvero che questo progetto possa portare cose belle a tutti. Sono persone speciali.

Scopri le opere di Giulio Brandelli!

Giulio Rigoni Arte Mistica

Giulio Rigoni – La mia è un’arte mistica

Volti impassibili come icone bizantine, costruzioni tanto precise quanto improbabili, scene oniriche sospese in un tempo indefinito. L’arte di Giulio Rigoni risveglia moltitudini di ricordi e impressioni, rigorosamente senza guida alla lettura.

Giulio, raccontaci la tua storia artistica.

Ho studiato storia dell’arte all’università, ma poi la vita mi ha portato altrove. Mi sono trasferito a Londra e ho iniziato a lavorare nel settore della pubblicità. Questa passione per l’arte è però riemersa e mi sono messo a dipingere quasi per gioco. Via via è poi diventato un impegno sempre più concreto.

Nelle mie opere mi ispiro moltissimo al mio primo amore: l’arte tardo-gotica. È un’arte a cavallo tra lo stile bizantino, così lontano dal naturalismo,  e il Rinascimento, che invece si addentrò nella scoperta della natura e nella verosimiglianza.

Nel periodo tardo-gotico si iniziò a lavorare sulla figura umana, ma questa continuava ad avere forme più spirituali che realistiche. È qualcosa che mi affascina molto, ed è stato il punto di partenza del mio lavoro.

Hai uno stile molto personale e riconoscibile, che in alcuni casi ricorda le atmosfere di Mille e una notte. Ci sono riferimenti diretti?

Non mi ispiro direttamente a questi racconti, ma posso essere definito un tradizionalista e subisco il fascino delle culture classiche, anche mediorientali. Mi piacciono inoltre le ambientazioni un po’ sognanti, che di certo pescano in un immaginario fiabesco. La chiave di lettura della mia arte è proprio il passaggio tra realtà e finizione, dove la seconda aiuta a capire meglio la prima. Se dovessi descrivere la mia arte in una sola parola, la definirei mistica. Non amo fornire interpretazioni o chiavi di lettura, proprio perché mi piace pensare che ognuno possa trovare qualcosa di diverso nelle mie opere. Vivere un’esperienza unica e, appunto, mistica.

A che cosa ti ispiri per le tue opere d’arte?

Spesso si tratta di temi che danno origine a serie. Per esempio ho disegnato la serie delle torri, che sono tutte diverse tra loro pur partendo da un’idea comune. Le architetture in generale mi piacciono molto, e forse sono un architetto mancato. Mi piacciono le geometrie, mi piacciono le costruzioni del passato. Questo affastellarsi di forme immaginifiche mi diverte e mi dà sempre stimoli. Mi capita sempre più spesso di lavorare anche su commissione; in questo caso il committente mi chiede di interpretare ricordi, narrazioni, che di solito realizzo su più tavole.

Ami molto gli sfondi neri.

In effetti ne vado molto fiero. Lavoro con la pittura a olio su legno, ma per lo sfondo uso l’acrilico, ottenendo un nero particolare, che ha una sua profondità. Le figure risultano così fluttuare in questo cielo nero, un po’ cosmico. Mi piace molto dare l’idea di scene fuori dal tempo, né di oggi né del passato, sospese in un momento indistinto. Le mie opere, insomma, fluttuano in un cosmo circolare che tutti ci governa, sospese nel non tempo.

Per gli sfondi amo molto anche il rosso e il blu, ma in generale la mia palette è piuttosto limitata: uso circa 12 colori e sono sempre gli stessi.

Che cosa pensi del progetto Cinquerosso Arte?

Sono molto contento di essere coinvolto, anche perché è nata una bella amicizia con Francesca Fazioli e mi piace tantissimo il suo entusiasmo. Inoltre questa collaborazione è arrivata al momento giusto, perché da qualche tempo ho iniziato a interessarmi alla stampa fine art. Con questo tipo di riproduzione di altissima qualità, l’opera d’arte diventa più accessibile e democratica e vorrei approfondire le potenzialità in relazione ad alcune mie opere.

Scopri le opere di Giulio Rigoni!

Andrea Piccioli Arte

Andrea Piccioli – L’arte per me è soprattutto relazione

Giovanissimo, Andrea Piccioli ha già alle spalle una storia densa e ricca di avventure, in cui l’arte dà volto alle emozioni, crea legami e fa nascere sempre qualcosa di nuovo.

Come sei arrivato all’arte?

Ho iniziato a disegnare fin da piccolissimo, anche perché era l’unico modo che i miei genitori avevano trovato per tenermi buono. A 8 anni sono stato colpito da una malattia autoimmune e ho dovuto passare un anno in ospedale; in quel periodo l’arte mi ha aiutato tantissimo: disegnavo, leggevo, ascoltavo musica, guardavo film. È stato allora che mi sono innamorato di Miyazaki e ho iniziato a sognare di scrivere e illustrare storie. Non ho più smesso di disegnare e lo faccio in continuazione, o come attività in sé o come semplice passatempo, magari mentre sono in un locale con gli amici. Si può dire che lo faccia per professione da quando ero un bambino, perché già alle medie ho venduto alcune opere.

Hai seguito una formazione specifica?

Ho studiato al liceo artistico, e così ho potuto conoscere il mondo dell’arte e sviluppare le diverse tecniche. Passavo i fine settimana a disegnare e dipingere per strada con uno dei miei più cari amici. Mettevamo un po’ di musica e realizzavamo dei disegni, anche in collaborazione. Li vendevo poi a offerta libera, perché non riuscivo a valutare i miei lavori e quindi chiedevo agli altri di farlo. Mi sono confrontato con il mondo e ne ho ricevuto un grande incoraggiamento, ho conosciuto tante persone nuove che ancora oggi fanno parte della mia vita. Da lì ho ricevuto incarichi per murales, serrande, eventi, esposizioni e performance dal vivo. Queste ultime mi appassionano molto, perché mi interessa soprattutto il rapporto con l’altro. Nel periodo dell’adolescenza ho iniziato a crearmi una mia estetica sempre più definita, in una ricerca che ovviamente continua ancora. In quel periodo ho iniziato a lavorare sui volti, che rappresentavano i miei stati d’animo, l’insieme delle emozioni che provavo. Cerco, insomma, di dare un volto al mio sentire, per avere con esso un rapporto più reale.

L’arte è quindi centrale nella tua vita.

Sì. L’arte mi definisce. Sento la necessità di esprimermi attraverso l’arte, e questo mi porta a vivere esperienze molto cariche di significato. Dopo il liceo, per esempio, sono partito e sono andato su un’isola del Canada grande come la Corsica ma abitata appena da 5000 persone. L’idea era di soggiornare per un breve periodo e poi riprendere il viaggio, ma mi sono trovato nel bel mezzo della pandemia. Tutti i collegamenti sono stati interrotti e ho trascorso lì diversi mesi. All’inizio lavoravo come aiuto cuoco e giardiniere, ma poi le persone del posto hanno iniziato a conoscermi e ad apprezzare quello che facevo. Su quell’isola vivono in armonia diverse comunità: ci sono famiglie di indigeni, ma anche americani, europei, asiatici e africani. L’isola mi ha accolto, e ho passato il resto della mia permanenza a realizzare opere per la comunità e per i privati. Tra le altre cose ho aiutato a costruire un rifugio nella foresta, per cui ho decorato stanze, cucina, porte…

Un’esperienza indimenticabile.

Assolutamente. Da solo, dall’altra parte del mondo, sono riuscito a comunicare e creare un rapporto con queste persone proprio grazie all’arte. Del resto la mia concezione dell’arte è molto vicina all’estetica relazionale di cui parla Nicolas Bourriaud. Mi interessa il rapporto tra arte e vita, tra arte e umanità.

Come si inserisce Cinquerosso Arte in tutto questo?

Anche in questo caso nasce tutto da una relazione, perché sono arrivato a Cinquerosso Arte grazie a un amico. Ringrazio lui e Francesca per avermi fatto entrare in questa squadra, perché mi ha permesso di avvicinarmi di più al panorama artistico italiano. Finora ho sempre “lavorato dal basso”, nelle strade, nei centri sociali, nei festival. Il fatto di avere stampe delle mie opere in questo nuovo contesto è per me una grandissima opportunità.

Scopri le opere di Andrea Piccioli!

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