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Maurizio Lai – I miei progetti sono quadri tridimensionali

Architetto, ma anche scenografo e designer, Maurizio Lai dà ai suoi progetti un’impronta distintiva basata su complesse geometrie, in cui ha un grande ruolo la luce. E forse ora è pronto per nuove sperimentazioni.

Maurizio, ci racconti la sua storia.

Il mio è stato un percorso piuttosto articolato e fuori dal comune. Ho iniziato a lavorare a vent’anni, mentre ancora studiavo, perché avevo deciso di trasferirmi da Venezia a Milano e dovevo mantenermi da solo. Ero convinto che Milano mi avrebbe offerto più stimoli e opportunità, ma pensavo di restarci solo pochi mesi. La consideravo una tappa provvisoria. Ecco, dopo quarant’anni mi sento ancora… provvisorio!

Il mio primo impiego consisteva nel cambiare rullini nello studio di un fotografo di moda. Poco dopo, trovai un lavoro simile presso un altro fotografo, Franco Trinchinetti, che all’epoca deteneva quasi il monopolio delle immagini per i cataloghi degli hairstylist. Fu lì che colsi la mia prima vera occasione di mettermi in gioco: mi coinvolse a disegnare volti di personaggi famosi, accompagnandoli con acconciature immaginate o rielaborate, utili alla realizzazione di un primo libro di acconciature disegnate. Un giorno, un po’ per scherzo, inserii anche il mio autoritratto tra quelli delle celebrità. Mi aspettavo una reazione negativa, invece Franco non solo non si arrabbiò, ma volle aggiungere il mio nome tra quelli di Michael Jackson e Marlon Brando! Ero incredulo. Lui mi disse: «Vedi, adesso questo libro farà il giro del mondo e tutti penseranno che anche tu sia un personaggio conosciuto. È così che funziona la pubblicità!». Quell’uomo è tuttora una figura di riferimento per me. Ha seguito con affetto e partecipazione tutte le fasi della mia carriera, incoraggiandomi nei successi e sostenendomi anche negli insuccessi.

Come è arrivato dal “cambiare rullini” a strutturare uno studio di architettura noto a livello internazionale?

Un po’ per caso, un po’ per la capacità – o forse il coraggio – di cogliere le occasioni che via via mi si presentavano. In quegli anni a Milano lavoravo, studiavo e frequentavo un gruppo di giovani artisti. Un giorno, un imprenditore cinese mi affidò l’incarico di realizzare le scenografie per un locale che aveva appena aperto, dove il sabato sera si faceva cabaret. Così coinvolsi alcuni di questi amici e iniziammo a lavorare a questo progetto, in un’atmosfera vivace e piena di energia. Su quel palco si esibivano artisti che sarebbero poi diventati volti noti della comicità italiana: I Fichi d’India, Maurizio Milani, Pino Campagna e molti altri. Poi, un giorno, su un treno, iniziai casualmente a dialogare con due autori televisivi. Uno di loro era Adriano Bonfanti, un autore molto noto nella televisione. Raccontai una “mezza verità”, dicendo che lavoravo per il teatro. Mi chiesero il numero di telefono.

Un mese dopo, inaspettatamente, mi arrivò una telefonata: cercavano qualcuno per realizzare le scenografie della puntata zero di un nuovo programma,Naturalmente bella, con Daniela Rosati. La situazione era delicata: la conduttrice aveva aspettative molto alte, e io – essendo un volto nuovo – ero considerato “un salto nel buio”. Invece io e lei ci intendemmo subito, e da lì cominciò la mia carriera di scenografo televisivo. Lavorai a lungo in quel settore. Ma a un certo punto sentii il bisogno di un cambiamento più profondo.

Decisi di dare una svolta alla mia vita professionale e di dedicarmi completamente all’architettura. L’architettura, in fondo, non è mai stata un ripiego o una deviazione. Era qualcosa che mi portavo dentro da sempre, anche se per molto tempo l’ho vissuta in modo laterale, quasi inconsapevole. Ogni volta che disegnavo una scenografia, che organizzavo uno spazio teatrale o televisivo, in realtà stavo già pensando come un architetto: lavoravo con la luce, con i volumi, con i percorsi, con la relazione tra le persone e l’ambiente.

A un certo punto ho sentito che era il momento di fare un passo avanti, di passare da una scena effimera a qualcosa di più permanente, di più concreto. Volevo progettare spazi che potessero restare nel tempo, che potessero essere vissuti, abitati, trasformati. Non è stato un salto nel vuoto, ma piuttosto un’evoluzione naturale. Ho messo insieme le competenze tecniche maturate con gli studi, l’esperienza visiva e scenografica accumulata in anni di lavoro, e la capacità di ascoltare e interpretare i desideri delle persone.

Così è nato il mio studio, che negli anni è cresciuto, ha cambiato forma, fino a ottenere una riconoscibilità anche a livello internazionale. Eppure, anche oggi, in ogni progetto continuo a vedere quel filo invisibile che lega tutto: la grafica, il disegno, il teatro, la fotografia. Sono linguaggi diversi, ma tutti parlano di spazio, di identità, di racconto. E forse è proprio questa la mia cifra: non costruisco solo edifici, cerco di dare forma a storie.

In effetti il suo stile architettonico è molto scenografico.

Nel tempo ho sviluppato uno stile piuttosto preciso, riconoscibile. Anche per questo mi trovo particolarmente bene a collaborare con clienti cinesi: sono interlocutori attenti, concreti, e non hanno la presunzione di imporre le proprie idee. Si affidano, e questo crea le condizioni per un vero dialogo progettuale. Negli anni ho portato avanti progetti d’interni in ambiti molto diversi, cercando sempre di mantenere coerenza estetica e rigore funzionale. Tra i lavori a cui sono più legato c’è la progettazione della prima scuola professionale europea dedicata a persone con sindrome di Asperger: un’esperienza che mi ha profondamente arricchito e mi ha fatto riflettere sul valore dell’architettura come strumento di inclusione. Più di recente, mi sono concentrato molto sul settore dell’hôtellerie e della ristorazione, ambiti in cui la cura dello spazio influisce direttamente sull’esperienza delle persone. L’architettura diventa qui un linguaggio sensoriale: accoglienza, atmosfera, equilibrio tra funzionalità e bellezza.

Oggi il mio studio è cresciuto e conta numerosi collaboratori. Mi piace pensarlo come una bottega rinascimentale: io do l’impronta artistica, la visione, e ho la responsabilità complessiva dei progetti. È un lavoro che richiede dedizione assoluta, attenzione costante, spesso con tempistiche serrate, quasi proibitive. Ogni giorno cerco di bilanciare il ruolo del manager con quello dell’artista. E non è sempre facile, ma è proprio in quella tensione che nasce il progetto.

Che ruolo ha l’arte figurativa nel suo lavoro e che cosa pensa di Cinquerosso Arte?

Ho conosciuto Cinquerosso Arte durante una manifestazione, e da subito l’ho definita un’avventura. Un’avventura stimolante, in cui gli interlocutori principali sono proprio gli architetti, chiamati a fare da tramite tra l’artista e il cliente finale. La vera difficoltà, però, sta nel fatto che – soprattutto quando si parla di interior design – l’arte è spesso ridotta a un elemento decorativo, anziché essere riconosciuta per il suo valore intrinseco, culturale ed espressivo.

Questo rappresenta un limite con cui mi confronto spesso. Nel mio lavoro, come dicevo, lo stile è molto definito, quasi un linguaggio formale che si ripete e si rinnova. Le mie architetture sono, in un certo senso, quadri tridimensionali. Ogni elemento è parte di un disegno più grande, di un equilibrio geometrico preciso, in cui nulla è lasciato al caso. Per questo tendo a occuparmi personalmente di ogni dettaglio. Mi capita spesso, per esempio, di disegnare anche le lampade: devono integrarsi perfettamente nel contesto, contribuire a costruire quell’atmosfera visiva e sensoriale che fa parte della mia idea di progetto. È anche per questo che, fino a oggi, non c’è mai stato molto spazio per collaborazioni artistiche nel senso tradizionale del termine. Il mio principale collaboratore, in fondo, è sempre stato il cliente: è da lui che parte tutto, dalle sue esigenze prende forma il perimetro del progetto, ed è in quel dialogo che nasce ogni architettura. Dico “finora”, perché forse è arrivato il momento di cambiare.

Come la mia storia dimostra, la mia carriera ha preso spesso direzioni inaspettate, e forse adesso sono pronto per aprirmi a un nuovo modo di operare, magari creando sinergie con altre figure.

Leggi l’intervista a Daniele Chiocchio!

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Daniele Chiocchio – L’armonia dell’insieme nell’ hôtellerie

Eventi, mostre, interior design: l’architetto Daniele Chiocchio orchestra i rapporti tra architettura, arte e spazi pubblici con sicurezza e maestria.

Architetto, ci racconti il suo lavoro.

Nel 1999 io e il mio socio Valerio Gini, architetto anche lui, abbiamo fondato Integra Studio, diventato in seguito Integra design e basato a Roma. La nostra attività corre su due binari paralleli. Il primo è quello dei grandi eventi. Ne abbiamo realizzati tantissimi e di diverse tipologie, in Italia e nel mondo: eventi nel campo dell’automotive e dello sport, eventi corporate per grandi aziende, eventi legati all’arte, tra cui grandi mostre.

Il secondo binario è quello dell’hôtellerie, che comprende tutto quello che riguarda il settore hospitality e F&B, quindi non solo hotel ma anche spa e wellness, ristoranti e cocktail bar.

Dal 2012 abbiamo realizzato molti interni per hotel, ma non solo: in realtà ci occupiamo di tutto, a partire dal concept e dalla progettazione preliminare per arrivare alla progettazione esecutiva e direzione artistica, fino all’interior design in ogni suo dettaglio.

Quindi il suo lavoro è profondamente legato all’arte…

Sì, certamente. Si può dire che siamo nati così, tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000: abbiamo iniziato infatti con l’exhibit design e con gli eventi, con mostre di grande richiamo, come quella sugli Espressionisti al Vittoriano a Roma, o con un taglio diverso come quelle su  Moto Guzzi, sui Beatles, su Fellini, su Audrey Hepburn all’Ara Pacis. C’è da dire, inoltre, che nel nostro percorso abbiamo allargato e approfondito le nostre competenze collaborando in team con professionisti che si occupano di  light design, proiezioni, tecnologia al servizio di grandi eventi e per installazioni, anche installazioni artistiche, tanto che abbiamo lavorato a video mapping quando ancora erano poco conosciuti, in luoghi come Palazzo Vecchio, a Firenze, o Montecarlo per Ferrari. Diciamo quindi che l’arte, intesa nel suo senso più ampio, entra spesso in gioco nel nostro lavoro, in modo trasversale.

In questo senso, può raccontarci l’esperienza di U-Visionary Venezia?

Mi piace il modo di lavorare di Cinquerosso Arte, e mi piace anche la possibilità di conoscere altri artisti,

L’inserimento di opere d’arte, o comunque di immagini artistiche, all’interno di strutture alberghiere è sempre una questione delicata.

Nel caso di U-Visionary Venezia avevamo un tema forte: siamo partiti dal ruolo della città come porta verso l’Oriente, con la sua storia di viaggi e scambi. Ci siamo ispirati a questo per tutta una serie di elementi dell’interior design: arredi, tessuti, dettagli, citazioni… Avevamo bisogno di qualcosa di esotico, nel senso più ampio del termine: qualcosa che avesse delle caratteristiche in qualche modo evocative ma che fosse acquistabile in grandi numeri. In un albergo, che mediamente ha 30, 40 camere, nella maggior parte dei casi non si possono acquistare pezzi singoli a cifre importanti. Per questo abbiamo trovato molto interessante la proposta di Cinquerosso Arte, con le sue riproduzioni di altissima qualità.

Abbiamo scelto tre artisti. Uno è Giulio Rigoni, con le sue immagini oniriche, ricche di elementi esotici. Nelle sue illustrazioni ho trovato collegamenti con Venezia, sia nelle immagini nel loro insieme sia nei tanti elementi iconografici. Poi c’è Icaro, con i suoi Botales: fotografie di batacchi che rappresentano figure metà umane e metà animali, e richiamano l’atmosfera misteriosa e affascinante di questa città. E poi c’è Luca Brandi, e nel suo caso abbiamo scelto opere con disegni geometrici e palette che si sposano perfettamente con il design generale, ma che soprattutto hanno un elemento interessante: sono molto “confortevoli”, evocano una sensazione di calma che rimanda anche alla cultura asiatica. Penso per esempio ai  giardini zen con le loro righe tracciate sulla sabbia, mentre qui sono tracciate nel colore.

Poco fa accennava al fatto che il rapporto tra arte e hôtellerie è piuttosto delicato. A che cosa si riferiva?

Sì, è delicato perché bisogna cercare di caratterizzare gli ambienti ma allo stesso tempo trovare il giusto equilibrio con gli altri elementi di arredo. Le opere d’arte devono essere interessanti e ben sposarsi con il contesto del design, senza appesantirlo. Un albergo non è uno spazio espositivo, non è un museo. L’opera d’arte non deve essere protagonista ma inserirsi in maniera organica e armoniosa. Quindi c’è una questione di rapporto e proporzione. Cinquerosso Arte, con la sua galleria così ampia, ci ha permesso di individuare artisti e opere in sintonia con il concept, che si inserissero e andassero a completare perfettamente il disegno generale.

Leggi l’intervista a Francesca De Pieri!

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Alberto Apostoli – Architettura, benessere, arte: quando la persona è al centro

Alberto Apostoli non ha bisogno di presentazioni. Leader internazionale nella progettazione di spa, il suo Studio Apostoli , è ben noto nel mondo dell’hötellerie. È quindi un grande onore e privilegio avere l’occasione di parlare con lui di architettura del benessere, e del ruolo dell’arte.

Architetto, la filosofia che ispira i suoi progetti è il binomio architettura e benessere. Può tratteggiarla per i nostri lettori?

La filosofia progettuale che perseguo da sempre è quella di un’architettura come strumento, cioè come mezzo per la creazione di benessere anziché fine a se stessa. Al netto dell’impatto estetico che l’architettura ha sulle persone, non mi fermo mai al semplice esercizio formale o architettonico.

Cerco sempre di immaginare quale sarà il beneficio per le persone in una certa scelta architettonica, un certo uso del colore e delle forme, una certa dimensione degli spazi; penso a quali saranno le funzioni, il rapporto tra interno ed esterno, e ogni altro dettaglio. Considero tutto questo alla luce dell’impatto che avrà su mente, corpo e anima. Interrogarsi sulla migliore soluzione per il benessere della persona è un cambio di paradigma progettuale molto importante: l’effetto estetico, il gesto artistico o il gesto tecnico – insomma, gli aspetti formali – sono subordinati alla ricerca di una dimensione di benessere.

Non è sempre facile, ma il payoff del mio studio è appunto “creatore di benessere attraverso l’architettura”.  

Quali sono le sfide che deve affrontare un architetto in questo ambito, e che cosa c’è di diverso rispetto ad altri?

Nell’architettura del benessere dobbiamo considerare il cliente finale e lo staff, e dobbiamo considerare la sensorialità degli spazi, cioè l’uso dei 5 sensi: la vista, naturalmente, ma anche l’olfatto, il tatto, l’udito e in parte anche il gusto. E poi c’è la quint’essenza, quella sorta di sesto senso che si innesca quando si verificano situazioni particolarmente cariche a livello emotivo. Questa è una prima peculiarità, se consideriamo il nostro lavoro da un punto di vista poetico-artistico.

Ci sono poi difficoltà intrinseche del settore benessere tra cui, per esempio, la componente impiantistica. E dobbiamo anche valutare lo stress a cui sono sottoposti materiali e superfici: pensiamo alle temperature in gioco, pensiamo all’uso dell’acqua, all’umidità degli ambienti. Inoltre dobbiamo tenere conto del fatto che i clienti si muoveranno seminudi, o scalzi, o che non potranno usare gli occhiali e avranno quindi una capacità visiva minore.

Dovremo quindi avere alcune accortezze tecniche molto specifiche, e diverse rispetto a quelle di altre architetture. Infine, ma non per importanza, occorre conoscere molto bene la macchina benessere; serve cioè una piena consapevolezza di come gli spazi vengono utilizzati, gestiti e manutenuti. L’esperienza del benessere non dipende solo dall’architettura, ma anche dal servizio, in particolare in termini di comfort. Questo significa saper prevedere e valutare come si muoverà lo staff, come si muoverà il cliente: una caratteristica che il mondo del benessere ha in comune con quello della ristorazione. Non possiamo progettare qualcosa di bello, se poi non è funzionale.

Voi vi occupate anche di design del prodotto. Quindi, oltre agli spazi, ideate anche ciò che questi spazi contengono…

Sì. Progettare prodotti implica dover tenere conto di tutto quello che ho detto in termini di funzionalità, ma per noi significa anche dare importanza alla multisensorialità. I prodotti che disegniamo parlano, di solito, non solo alla vista ma anche agli altri sensi, e in questo siamo molto attenti alla componente tecnologica. Inoltre, nella stragrande maggioranza dei casi bisogna considerare una certa ritualità, una certa liturgia dell’oggetto. È un aspetto che mi affascina molto, ed è veramente specifico del mondo del benessere. Se pensiamo per esempio a un massaggio, a una sauna, a un certo uso dell’acqua, notiamo una ritualità che in alcuni casi diventa una sorta di liturgia: una ritualità ricorrente e normata.

Teniamo conto che il mondo del benessere è spesso legato a pratiche e filosofie di origine orientale, e ne porta le tracce. Il principale effetto di queste liturgie è quello di mettere ordine tra le azioni: se non è necessario chiedersi che cosa fare, è più facile concentrarsi sull’hic et nunc.

Ovviamente dobbiamo tenere conto del mercato, delle tecnologie disponibili, dell’ergonomia, ma come dicevo diamo grande rilevanza all’aspetto liturgico.

Qual è il ruolo dell’arte in tutto questo?

Nel mondo del benessere l’arte rientra in tutte le sue forme, dalla pittura alla musica, ma è un’arte anche l’uso della luce, o la cucina. L’arte figurativa in particolare è fondamentale perché enfatizza o interpreta il concept generale. Se pensiamo al settore dell’hospitality, lo storytelling di un hotel passa anche attraverso le opere d’arte incluse nell’opera architettonica, che hanno il potere di caricare, concentrare, sintetizzare un pensiero. Il cliente medio non può comprendere pienamente uno storytelling complesso come quello di un hotel, ma ne può percepire l’essenza con una semplice immagine.

Questo è vero anche, e soprattutto, nel settore del benessere. Per fare un esempio: nel caso di una cabina, devo scegliere opere diverse a seconda che si pratichi una ritualità nordica, piuttosto che thailandese, per comunicare in modo efficace e creare la giusta atmosfera.

Che cosa pensa di Cinquerosso Arte, e dell’idea di una galleria dedicata principalmente all’hötellerie?

L’idea di Cinquerosso Arte è assolutamente in linea con le esigenze di questo settore, perché offre una varietà e una complessità di proposte artistiche molto interessante. Chi, come noi, si ritrova a dover enfatizzare concetti complessi, ha bisogno di un catalogo vastissimo e di tantissimi stimoli. In alcuni casi estremi, si potrebbe partire proprio dall’opera d’arte e costruire intorno a essa un concept.

Cinquerosso Arte propone artisti molto diversi tra di loro, ognuno con il proprio stile e la propria interpretazione, e potrebbe essere interessante commissionare delle opere sulla base di alcune specifiche del progetto.

Ci è capitato di farlo, cioè di rivolgerci ad artisti con una sensibilità affine al concept e chiedere loro di interpretarlo, di lasciarsi ispirare. Si tratta di un lavoro su commissione, ma questo non toglie nulla al valore artistico: basti pensare alla Cappella Sistina, che è un esempio eclatante di quello che si può creare in seguito a una commessa.

Il mio studio dà sempre al cliente indicazioni, se non addirittura prescrizioni, circa l’aspetto decorativo, e in questo rientra anche la scelta delle opere d’arte. Bisogna considerare, infatti, che in questo tipo di scelte incide molto il gusto personale, ma può capitare che i gusti della proprietà vadano a discapito del risultato finale, a prescindere dalla qualità delle opere stesse.

Un’opera d’arte meravigliosa può rovinare uno storytelling con cui non è in sintonia, ed è per questo che occorre andare oltre il gusto personale e scegliere con cognizione di causa, soprattutto nel settore hötellerie.

Leggi l’articolo su Tuttohotel 2025!

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Andrea Rocchi – Il mio lavoro è passione, emozione, ricerca

Titolare dello studio omonimo di Interior design e responsabile del settore HoReCa per l’AIPI l’Associazione Italiana Professionisti Interior designers, Andrea Rocchi è l’interlocutore ideale per parlare del rapporto tra architettura e arte nella contemporaneità.

Può parlarci del suo lavoro?

Ho uno studio di architettura di interni specializzato nel settore HoReCa, ovvero progetti per hotel e locali food. Oggi ho una decina di collaboratori e gestiamo quasi esclusivamente progetti per grandi aziende, società per azioni e alberghi partendo dalla categoria quattro stelle a salire. Inoltre sono responsabile nazionale dell’Aipi, l’associazione Italiana Professionisti Interior Designers, per quanto riguarda il settore HoReCa.

Quali sono le particolarità del suo studio?

Ce ne sono almeno due. Oltre ad avere architetti e ingegneri che si occupano delle questioni più tecniche, sono presenti architetti che si occupano di comunicazione e di grafica legata al mondo del food. Ritengo indispensabile curare anche questo aspetto per dare corpo a progetti di valore. Invece di appoggiarmi all’esterno, ho preferito gestire la comunicazione, ormai parte integrante dei nostri progetti, in modo complementare al progetto di interior.

La seconda particolarità, e in questo siamo quasi unici, è che ho sempre una o due persone che si occupano di operare nella ricerca legata al design. Cerchiamo di capire quello che succederà nel futuro, il che significa sia monitorare le evoluzioni tecnologiche (e quindi intravedere quali potrebbero essere le novità che le aziende proporranno) sia mantenere un osservatorio sulle nuove tendenze. Ed è qui che subentra il ruolo dell’arte, perché le tendenze sono legate allo stile, al gusto. Quando parlo di arte non mi riferisco solo all’arte figurativa, ma anche alla musica, al cinema, al teatro: tutte cose che approfondiamo e seguiamo per nutrire le nostre proposte. Cerco di farmi capire con un paragone: noi non facciamo prontomoda, cerchiamo di sfilare in passerella, provando a proporre soluzioni sempre nuove e in linea con i tempi. Con la differenza che la moda, dal punto di vista analitico, ha una cadenza di ricerca stilistica di tipo annuale, mentre nel nostro settore si lavora su ritmi che vanno dai tre ai sei anni.

Un’altra cosa a cui tengo molto è il concetto di formazione continua. Per fare questo lavoro, come del resto per ogni lavoro con una forte componente individuale, servono due cose: una certa predisposizione – un talento diciamo – e un impegno continuo per ampliare le proprie visioni e migliorare le proprie tecniche. Quando effettuo un colloquio alla ricerca di collaboratori per il mio studio non guardo le conoscenze tecniche eccetera, ma guardo passione, etica e obbiettivo della persona, perché sono certo che, se presenti, tutto funzionerà al meglio.

Che cosa le dà motivazione nel suo lavoro?

La mia motivazione è poter dare qualcosa alle persone che vivranno, lavoreranno o si troveranno a frequentare gli ambienti che progetto. La prima cosa che possiamo dare è un’emozione, quella che si ricava di primo impatto. Le ricerche dimostrano che noi ricaviamo una prima impressione in sette secondi, sette secondi che saranno decisivi nel nostro giudizio.

A questa impressione preliminare seguirà poi un giudizio vero e proprio, che ha a che fare con l’esperienza che le persone si ritrovano a vivere e che possiamo riassumere con la parola comfort, ovvero quanto ci fa stare bene e ci emoziona l’ambiente in cui ci troviamo.

Tutte le volte che mi capita di parlare in pubblico sottolineo quanto sia importante l’emozione. Dobbiamo provare emozioni lavorando, per poter emozionare i nostri clienti che magari si commuoveranno vedendo il loro nuovo locale, e per poter emozionare gli ospiti che in quel locale si ritroveranno.

Che ruolo ha l’arte nell’interior design, dal suo punto di vista?

È importantissima, per due motivi. Intanto perché negli hotel e nei locali che arrediamo utilizziamo molte immagini create da artisti – dai quadri ai motivi sulla carta da parati –, ma anche perché l’arte è indispensabile per quel processo di formazione continua di cui parlavo prima. Insisto molto con i miei ragazzi perché vadano a vedere mostre e si tengano aggiornati su quello che accade nel mondo dell’arte, perché è così che si forma il gusto. Che cosa rende gli italiani così diversi dagli altri? Perché siamo così apprezzati nel mondo? Perché nasciamo, cresciamo e viviamo in mezzo all’arte. Le nostre città sono bellissime, studiate da architetti, piene di statue e iconografie legate alle diverse epoche. I nostri occhi, la nostra mente, si abituano alle cose belle: moda, design, arte, architettura, musica, letteratura.

Che cosa pensa di Cinquerosso Arte?

Trovo che sia una bellissima iniziativa, qualcosa che mancava nel nostro settore. Nessuno mai aveva pensato di mettere insieme artisti da proporre agli studi di architettura che lavorano nel campo dell’ospitalità e della ristorazione, offrendo sia qualità sia prezzi compatibili con i budget di un allestimento. Per questo, appena sono venuto a conoscenza di Cinquerosso Arte ho deciso di coinvolgerla nei prossimi progetti.

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Ogni casa è un concerto

Ogni casa è un concerto – Intervista a Nicola Grandolini, Vicepresidente AIPI

Cinquerosso Arte è entrato a far parte dell’AIPI, Associazione Italiana Professionisti Interior Designers. Nicola Grandolini ci spiega perché è così importante comprendere le opere d’arte nei progetti d’arredo.

Di che cosa si occupa la vostra organizzazione?

L’AIPI esiste da oltre 50 anni ed è l’unica nel nostro Paese a rappresentare questa categoria. Spesso la figura dell’interior designer viene confusa con quella dell’arredatore, ma in realtà si tratta di una professionalità specifica. Noi ci preoccupiamo della qualità della vita delle persone, a partire dagli spazi in cui vivono o che si trovano a frequentare.

Qual è il ruolo dell’interior designer?

Intanto bisogna precisare che è una figura a sé stante, con competenze più specifiche rispetto a un architetto. Un po’ come per la medicina: c’è la medicina generale e poi ci sono gli specialisti. Noi siamo gli specialisti degli interni. Non abbiamo la direzione del cantiere come gli architetti, ma abbiamo la direzione concettuale e creativa del concept degli interni. Il nostro approccio, quindi, si basa sulla collaborazione con impiantisti, artigiani, professionisti e tutti i tecnici coinvolti nel progetto. È un lavoro necessariamente di squadra. Pensiamo a un grande architetto come Gaudí: non avrebbe mai potuto realizzare quello che ha realizzato senza poter contare su bravissimi collaboratori quali ebanisti, fabbri etc.

Parlando di collaborazioni, Cinquerosso Arte è appena entrata a far parte della vostra organizzazione. Che cosa ne pensa?

Siamo felici di avere il contributo di Cinquerosso Arte. Abbiamo bisogno di partner, e poter sviluppare un progetto insieme a Cinquerosso Arte significa poter avere nella squadra anche gli artisti, che hanno il potere di creare emozioni dentro altre emozioni. Un interior designer può scegliere un’opera in sintonia con il progetto che ha in mente, ma può accadere anche il contrario: si può partire da un’opera d’arte, dalle emozioni che esprime, e intorno a essa costruire il concept di uno spazio.

Dunque è importante tenere conto dell’arte nell’immaginare un arredamento?

Certamente. Un interior designer ha il compito di organizzare gli ambienti intorno al benessere delle persone che li abitano e li frequentano, dalla casa alla scuola, dalla sala conferenze all’ospedale. Ed è qualcosa che ha una grande importanza nella vita di ognuno di noi. Non a caso abbiamo tra i nostri collaboratori anche degli psicoterapeuti. Un ambiente non armonioso risulta nocivo. Il Covid ha costretto tutti a riflettere su questo tema, perché in tanti si sono ritrovati chiusi in abitazioni “scomposte”, non organizzate per garantire il benessere. Pensiamo a una casa. Se vogliamo che una persona arrivi a dire “Sto davvero bene in questo ambiente”, dobbiamo tenere conto delle sue abitudini ma anche delle sue emozioni. Ecco perché è importante includere anche l’arte e farlo in modo organico. L’ingresso di Cinquerosso Arte nella nostra associazione ci permetterà di avere a disposizione tante opere d’arte, tanti stili e tante visioni, e di sviluppare collaborazioni a beneficio dei clienti.

Come si svolge il vostro lavoro?

Noi siamo i sarti che devono realizzare il vestito giusto per il cliente, un vestito nel quale si senta a suo agio. Si parte sempre da un approfondito dialogo con cliente per capire quali sono le sue necessità, le sue preferenze e il suo modello di vita. In sintesi, partiamo dal dialogo con il cliente, collaboriamo con tanti professionisti supervisionando il lavoro di tutti, per assicurare il benessere delle persone. 

Una casa, un ospedale, una scuola, un albergo, un ufficio… insomma, qualsiasi ambiente è un concerto, e noi interior designers siamo i direttori d’orchestra. 

Quali sono i compiti della vostra organizzazione?

Come associazione siamo attivi non solo nella tutela di questa figura professionale, ma anche nel creare collaborazioni e sinergie. Per esempio, siamo soci fondatori del POLI.design del Politecnico di Milano, collaboriamo con scuole ed università nostre associate quali lo Iuav di Venezia. I nostri iscritti lavorano in Italia e in tutto il mondo, e ovviamente abbiamo collaborazioni attive a livello internazionale. Abbiamo appena organizzato, per esempio, una convention a Firenze con Ifi (International Federation of Interior Architects/Designers) ed Ecia (European Council of InteriorArchitects).

Abbiamo creato di recente un comitato tecnico-scientifico per lo sviluppo e la qualifica della figura dell’interior designer a livello europeo. Altra novità degli ultimi tempi è l’iscrizione al Mise, presso il Ministero delle imprese e del Made in Italy, in seguito alla quale abbiamo assunto anche un ruolo attivo nella formazione. Ora dobbiamo costruire percorsi di approfondimento e aggiornamento, e possiamo farlo anche grazie alle università che iniziano a offrire corsi di laurea in interior design.

Architetto Marcello Ceccaroli

Marcello Ceccaroli – L’albergo si apre alla città e all’arte 

Decine di grandi alberghi in Italia portano la firma di Marcello Ceccaroli, noto architetto romano che viaggia per il mondo alla ricerca di nuove suggestioni. Un settore, quello dell’hôtellerie, che sta cambiando anche nel segno dell’arte.

Il suo studio è specializzato in hôtellerie. Come mai questa scelta?

È un percorso iniziato subito dopo la laurea, nel 1994, quando mi sono trasferito in Brianza per lavorare con un’azienda che operava in questo settore. Si trattava di alberghi di altissimo livello, quasi tutti a cinque stelle. Lì ho imparato tanto, partendo dal basso e arrivando al project management. Nel 1999 ho aperto il mio studio a Roma, e da allora abbiamo realizzato oltre 130 strutture, tra alberghi e ristoranti, in Italia.

Qual è l’aspetto che l’appassiona di più di questo lavoro?

Sono finito nel mondo dell’ospitalità quasi per caso, ma l’ho trovato davvero molto affascinante. Sicuramente mi stimola da un punto di vista professionale, perché il settore hôtellerie è sempre in espansione e dà molta visibilità: un conto è realizzare un’abitazione privata, un altro conto è mettere la propria firma sul progetto di un albergo, frequentato da tantissime persone.

Inoltre è un mondo in continua evoluzione, con prodotti innovativi che aprono la strada a molte sfide. Basti pensare che un tempo il mio studio si occupava solo di interni, mentre oggi ci chiedono una progettazione completa: location, progetto architettonico, strutturale, impiantistico e arredamento. Amo talmente tanto il mio lavoro, che ho trasformato le mie vacanze in un’occasione per imparare sempre di più: viaggio con la mia famiglia per visitare gli alberghi più interessanti di tutto il mondo, così mi tengo sempre aggiornato e ispirato.

Che cosa è cambiato in questi anni nel settore?

Trenta, trentacinque anni fa, l’albergo era un edificio chiuso, il cui business era limitato alla clientela. Oggi gli alberghi si sono aperti alla città, organizzano e accolgono sfilate di moda, mostre, ricevimenti, eventi. I ristoranti degli alberghi, che prima non venivano presi in considerazione da clienti esterni, oggi sono importanti punti di aggregazione.

C’è anche un cambiamento in atto in Italia, che arriva per ultima in questo: un tempo gli alberghi nel nostro Paese erano quasi tutti gestiti da privati, mentre oggi si stanno diffondendo le grandi catene, come già avviene all’estero.

Parlava di mostre. Dunque c’è spazio per l’arte negli alberghi?

Sì, certamente. Gli alberghi possono ospitare esposizioni temporanee nelle hall, e questo è uno dei modi in cui l’arte può entrare in questo settore.

Ma c’è spazio per anche in fase di progettazione. Per esempio, di recente abbiamo realizzato un albergo nei pressi della Stazione Termini, a Roma, e in questa occasione ci siamo rivolti al noto sculture Jago, che ha realizzato una serie di opere appositamente per noi. Inserisco spesso opere d’arte nei miei progetti, perché in questo modo l’ospite dell’albergo potrà goderne durante il suo soggiorno.

A questo proposito, cosa pensa del progetto Cinquerosso Arte?

Devo dire che mi piacerebbe collaborare. Ho visto opere davvero molto interessanti, e prima o poi vorrei inserire dei pezzi nei miei progetti perché potrebbe essere un bellissimo connubio. Quando progetto un albergo, mi ispiro tantissimo alla location: mi piace pensare di poter trovare opere che diano un valore aggiunto coerente con questa ispirazione, che diano carattere e riconoscibilità.

L’albergo ha solo da guadagnare nel poter esibire un’impronta artistica. Io stesso, nei miei viaggi, sono felice quando un albergo mi dà emozioni, e cosa c’è di più emozionante dell’arte?

Siamo a ridosso del Salone del Mobile di Milano, un evento molto importante per chi fa il suo mestiere. Sarete presenti?

Abbiamo due progetti che vorremmo esporre. Uno sarà ospitata in uno stand sperimentale, mentre l’altro è una vera e propria camera d’albergo, ma non posso dire di più perché sono sorprese riservate alla fiera.

Chiara Castelli

Chiara Castelli – Serve una cultura dell’arte, anche per l’interior design

Architetto e designer, Chiara Castelli ama instaurare con i clienti un rapporto di intimità e fiducia. Ascolto ed esperienza sono dunque i requisiti indispensabili per un arredamento dalla forte personalità.

Chiara, ci può descrivere il suo lavoro?

Be’ intanto posso dire che sono innamorata del mio lavoro. Il mio tempo libero lo dedico a cercare oggetti, materiali, idee. Sono laureata in architettura al Politecnico di Milano, ma mi occupo principalmente di architettura d’interni; essendo cresciuta in una famiglia di mobilieri ho sempre avuto a che fare con l’arredamento. Come architetto in effetti sono un po’ atipica perché ho un negozio di arredamento dove vendo sia i mobili disegnati da me, sia pezzi unici o comunque non prodotti in serie. La mia filosofia è infatti no logo. Il cliente che viene da me non cerca una marca, ma vuole qualcosa di distintivo, che abbia la mia impronta e sia frutto della mia selezione. Seguo quindi il cliente in ogni aspetto del progetto, dalla disposizione degli ambienti alla scelta dei tessuti e degli oggetti di arredo.

Nei miei lavori prediligo i colori caldi e do grande importanza ai materiali; uso moltissimo, per esempio, i metalli ossidati. Cerco di rimanere in linea con le tendenze, ma sono piuttosto eclettica e preferisco mischiare, dai pezzi di design a oggetti di antiquariato. In linea generale mi ispiro allo stile decorativo francese, per cui non sono certo “asciutta”, ma nel disegnare i miei pezzi scelgo sempre linee molto essenziali.

Qual è la parte che le piace di più di un progetto?

Devo dire che mi piace tantissimo il rapporto che si crea con il cliente. Entro nella vita delle persone, nelle loro case, in modo molto intimo. Vengo a sapere come la gente vive, quali sono le abitudini della famiglia, e spesso mi ritrovo a fare un po’ da psicologa. Nel tempo ho imparato ad ascoltare, a gestire anche alcune dinamiche che si creano per esempio tra marito e moglie, e quindi a offrire le mie idee. Amo questo aspetto del mio lavoro perché da me arriva la giovane coppia che sta per andare a vivere insieme per la prima volta, così come la coppia più matura che ha un altro tipo di atteggiamento e di bisogni. Ed è bello entrare nel loro mondo. La sfida è capire che cosa vuole chi ho davanti e cercare di filtrarlo con le mie scelte: per me il cliente non ha sempre ragione, e non lo assecondo se penso che le sue idee abbiano dei difetti.

Che ruolo ha l’arte nel suo lavoro, e cosa pensa di Cinquerosso Arte?

Do un grandissimo peso alle opere d’arte e più in generale a quanto finirà sulle pareti, per un semplice motivo: la prima cosa che le persone sbagliano nell’arredare le loro case sono i quadri. Ci sono clienti che sono appassionati d’arte e magari vogliono costruire il progetto di arredo proprio intorno alle opere, ma nella maggior parte dei casi le persone non hanno una sensibilità artistica. Per un interior designer, quindi, la difficoltà consiste nel coniugare il gusto personale del cliente con la necessità di non rovinare tutto con brutte opere alle pareti.

Per questo trovo molto interessante il progetto di Cinquerosso Arte, che offre a chi fa il mio mestiere opere di qualità a prezzi compatibili con qualsiasi tasca.

Certo, vedo delle difficoltà, soprattutto perché non è semplice far capire l’arte attraverso il canale digitale, e più in generale manca una vera e propria cultura che permetta di far riconoscere il bello. Bisogna costruirla.

arte architettura

Arte e Architettura, arti gemelle – Intervista a Max Martelli

L’architettura non è soltanto edilizia, così come l’arte non è solo “roba da museo”. Da sempre queste due espressioni della creatività umana sono intrinsecamente legate. Nel parliamo con lo storico dell’arte Max Martelli.

Max, ci racconti in breve il rapporto tra arte e architettura nella storia.

Si tratta ovviamente di un tema vastissimo, ma proverò a sintetizzarlo partendo da un esempio che credo possa avere punti in comune con il progetto Cinquerosso Arte. Voi offrite una consulenza per permettere agli architetti di integrare opere d’arte nei loro progetti, e questo significa che l’opera non arriva dopo, a riempire un vuoto, ma fa parte dell’idea stessa dello spazio.

E di questa profonda compenetrazione abbiamo molti esempi che vengono dal passato. Pensiamo per esempio ai pittori pompeiani, che usavano dipingere gli ambienti delle case creando l’illusione di spazi architettonici. La pittura non era volta a creare semplici decorazioni, ma simulava architetture e quindi modificava la percezione degli spazi.

Ritroviamo questo tipo di relazione in epoche storiche, successive. Dopo la lunga parentesi bizantina, in cui lo spazio e il tempo scomparivano in favore delle icone, che possiamo considerare come preghiere virtuali, arriva Giotto. Cito qui il Presepe di Greccio, ad Assisi, che ci mostra una scena che avviene oltre l’iconostasi. Giotto in questa opera ci porta nel presbiterio e ci fa vedere il retro di un crocifisso. Ci mostra insomma uno spazio architettonico, tridimensionale che sarebbe nascosto alla vista. Dalla metafisica bizantina, passiamo quindi a uno spazio fisico.

Da Giotto in poi, lo spazio torna a essere rappresentato e con esso ritorna il rapporto tra pittura e architettura. Cito per esempio Masaccio, che nella Trinità di Santa Maria Novella a Firenze ci mostra un corpo con una prospettiva quasi architettonica, contenuto in una volta scorciata. Vorrei citare anche Antonello da Messina, nell’Annunciata, perché paradossalmente qui l’architettura non è rappresentata ma sentita: questa opera comprende anche noi, perché lo spettatore occupa il punto nello spazio in cui si trova l’angelo.

Nel Rinascimento abbiamo poi la figura del pittore architetto – Michelangelo, Bernini, Raffaello, Bramante – che si ispirava esplicitamente all’arte romana. In questo periodo viene riscoperta una tecnica chiamata “quadratura” che significa simulare architetture all’interno delle quali vengono inseriti affreschi. La Galleria Farnese di Annibale Carracci è costruita tutta secondo questo sistema.  Interessante è quello che avviene nella seconda metà del ’400 nel territorio veneto, tra Padova e Venezia nel rapporto tra cornice e pittura. Pensiamo ancora al Mantegna nella Pala di San Zeno di Verona, che inserisce la pittura in una cornice monumentale: non si tratta dunque di un semplice contenitore, ma di una vera e propria architettura nella quale vengono messi in scena i personaggi. Questo discorso viene ereditato da Bellini, che in diverse opere replica questo approccio con una cornice forte, architettonica. Lui però fa un passo ulteriore e libera le figure dalla cornice architettonica, per dare loro autonomia, ma la cornice stessa da fisica diventa dipinta. Va citata L’incoronazione della Vergine, oggi nei Musei Civici di Pesaro, che ci mostra una cornice nella cornice. Cristo è rappresentato in una cornice lignea, seduto sul trono insieme alla Vergine, e la spalliera del trono è a sua volta una cornice che inquadra la rappresentazione di un paesaggio. È un’opera di straordinaria modernità e grande impatto, che definirei rivoluzionaria.

Ci sono esempi anche nel campo delle arti plastiche?

Sì, tantissimi. Ce n’è uno che mi sembra particolarmente interessante, ed è l’Altare del Santo di Donatello, a Padova. Si tratta di un gruppo di statue in bronzo con al centro Maria e il Bambino, a cui si accompagnano anche delle formelle con bassorilievi. Ebbene, queste opere erano state pensate da Donatello (che aveva una mentalità da architetto) all’interno di una struttura architettonica ben precisa, di cui oggi non sappiamo nulla. Aver perso questo contesto ci impedisce di apprezzare pienamente l’opera, che di fatto risulta snaturata. Ecco quindi un esempio lampante di un rapporto strettissimo tra arte e architettura, che riconosciamo per assenza. Tra l’altro la pala del Mantegna, di cui parlavo prima e che è successiva di qualche anno, viene utilizzata dagli storici come possibile ipotetico modello di riferimento per la ricostruzione virtuale dell’altare di Padova, dato che ad esso Mantegna sembra essersi ispirato.

Venendo ai giorni nostri, dove possiamo veder interagire arte e architettura?

In epoche più recenti, possiamo guardare al Liberty e all’Art déco, dove c’erano elementi architettonici all’interno dei quali venivano incluse opere pittoriche. Ai giorni nostri invece bisogna pensare alla street art: i veri artisti realizzano opere che utilizzano le parti architettoniche trasfigurandole. Una tubatura, per esempio, diventa lo stelo di un fiore e acquista grazie all’arte una nuova ragion d’essere.

Che cosa pensa del progetto Cinquerosso Arte?

Ho conosciuto di recente lo studio Cinquerosso e mi ha colpito la capacità di progettare, un po’ come gli artisti del passato che abbiamo appena menzionato, soluzioni di arredo attraverso opere d’arte integrate all’architettura e al design dei luoghi che il cliente desidera personalizzare e rendere quindi riconoscibili e unici. È un modo per far “parlare” gli ambienti, per far loro raccontare da subito, per esempio, la filosofia di un’azienda o di un professionista. L’impatto dell’opera d’arte giusta, anche solo nella sala di attesa di uno studio professionale, è un po’ sottovalutato, ma lentamente si sta scoprendo la sua importanza nella comunicazione, la capacità delle opere di colpire chi le guarda. Il quadro giusto, collocato nel punto giusto, può essere parte del successo di un’azienda, o almeno della sua immagine verso il pubblico.

Condivido quindi il fatto che Cinquerosso abbia compreso tali potenzialità e abbia scelto di estendere la propria offerta sviluppando ulteriormente, in una modalità al passo coi tempi, l’antico rapporto tra opere d’arte e architettura. E questo si lega anche, secondo me positivamente, al progetto Cinquerosso Arte, che permette di promuovere i nuovi artisti e i loro lavori, inserendoli da subito in un circuito professionale che li porta a contatto con potenziali clienti. Molti artisti o aspiranti tali potrebbero vedere in questo processo di moltiplicazione seriale delle proprie creazioni, e nella loro applicazione nel campo dell’arredo, un fattore sminuente della propria creatività, o della unicità delle opere d’arte, ma non è così. Basti pensare, appunto, a ciò che abbiamo detto fino ad ora sull’antico rapporto tra arte e architettura.

Pierluigi Molteni architetto Bologna

Pierluigi Molteni – L’opera d’arte è un’ospite d’onore

L’architetto Pierluigi Molteni ci apre virtualmente le porte del suo studio per offrirci il suo interessante punto di vista sul rapporto tra architettura, arte e persone.

Quali sono le caratteristiche principali dei suoi progetti?

Il mio studio segue principalmente progetti di due tipi, residenziali e allestimenti temporanei. Nell’ambito del residenziale, riserviamo molta attenzione a come si modificano nel tempo gli stili di vita e quindi a come si modifica l’abitare delle persone. La nostra non è mai una pura e semplice proposta di stile ma cerchiamo di interpretare al meglio il modo in cui verranno vissuti gli spazi dai nostri committenti. Il nostro mestiere è prima di tutto un lavoro di ascolto e attenzione. Poi accompagniamo il nostro committente a partire dal concept fino al completamento dell’interior, passando attraverso il disegno degli esecutivi, la direzione del cantiere, la scelta di materiali e finiture: sono tutti aspetti  che non possono viaggiare separati.

Il secondo ambito è quello degli allestimenti temporanei, che a sua volta si articola in due filoni. Da una parte ci occupiamo degli allestimenti di alcune importanti aziende del settore ceramico, italiane e straniere, dall’altra curiamo allestimenti museali e d’arte. L’ultimo progetto realizzato è quello per la mostra “Giulio II e Raffaello, una nuova stagione del Rinascimento a Bologna”, alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, che sarà visitabile fino al 5 febbraio 2023.

Questi ambiti, il residenziale e l’allestimento, li sento fortemente legati da un fattore comune. Il mio studio parte sempre dall’esperienza dello spazio, cioè dal modo in cui le persone vivono e percepiscono le qualità spaziali di un determinato ambiente, come risuona, come reagisce alla luce. Che siano spazi abitativi o quelli di una mostra, costruiamo il progetto per far sì che siano accoglienti, interessanti, che invitino alla scoperta. Come dicevo, mettiamo sempre al centro la costruzione di una vera e propria esperienza di senso e di sensi.

Dunque l’arte ha un peso importante nel suo lavoro.

Nel mio lavoro e anche nella mia vita, perché sono un frequentatore “compulsivo” di mostre. Se visito una città lo faccio anche per poter visitare le varie esposizioni. Nel mio lavoro poi mi capita di avere clienti che possiedono importanti collezioni. In questo caso operiamo per creare le giuste condizioni per accogliere le opere ed esaltarne le caratteristiche. Un’opera d’arte condiziona lo spazio e interagisce con questo. Bisogna leggerne e intepretarne sempre le potenzialità

Anche in questo caso si tratta di esperienza?

Sì perché vanno sempre coltivati gli elementi di sorpresa, straniamento, ingaggio. Con un’opera d’arte si instaura sempre un rapporto intimo e quindi bisogna costruire le condizioni per enfatizzarlo. Nella mostra sul Rinascimento ad esempio, il visitatore scopre il pezzo più importante (cioè il ritratto di Giulio II eseguito da Raffaello) attraverso un percorso di scoperta. Allo stesso modo, nelle case queste opere sono talmente cariche di significato che meritano uno studio attento per poterle valorizzare al massimo. Un’opera d’arte è un po’ come una persona cara che viene ad abitare con noi: vive di vita propria e bisogna metterla nelle condizioni per esprimere al meglio quello che ha da dire, quello che ha da dare.

Che cosa pensa del progetto Cinquerosso Arte?

A me sembra un progetto molto sensato. Parto dall’idea che le gallerie si debbano ripensare. Funzionano solo se incoraggiano e facilitano il rapporto tra collezionista e artista, nutrendo la comunità di cultori. Altrimenti sono negozi come gli altri e si perde la magia dell’arte.

Cinquerosso Arte è in qualche modo una comunità, una comunità virtuale che può nutrire la necessità dell’arte. A questo si aggiunge il tema dell’accessibilità. Sdoganato il concetto della riproducibilità dell’opera d’arte (Walter Benjamin ne aveva parlato già nella prima metà del ’900), sappiamo che un multiplo ha le stesse caratteristiche dell’originale, in termini di fruibilità, piacevolezza, capacità di parlarci e donarci sensazioni. L’opera mantiene valore per la sua bellezza intrinseca e perché è legata a un autore, a un artista, ma la riproducibilità consente di diminuirne il costo. Questa è la forza del progetto di Cinquerosso Arte.

T O P
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